giovedì 29 dicembre 2016

Rogue One: A Star Wars Story (2016)

★★★★
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Alla principessa Carrie Fisher, 
mortale sulla Terra 
immortale nell'immaginario collettivo. 

Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana... I Jedi sono scomparsi, la gloriosa Repubblica è caduta, l'Impero Galattico è sorto sprofondando gli animi di tutti nella più buia paura e i membri della Vecchia Repubblica, ormai perseguitati, si stanno nascondendo, e solo i membri dell'Alleanza Ribelle hanno osato contrapporre le loro forze contro la minaccia imperiale. Il direttore Krennic ha scoperto il luogo in cui vive un brillante ingegnere capace di completare l'arma più potente dell'Impero: la Morte Nera. 

Rogue One: A Star Wars Story si colloca alla perfezione tra La vendetta dei Sith e Una nuova speranza. Anche qui, come nel settimo capitolo, la protagonista è una donna: Jyn Erso (Felicity Jones), figlia dell'ingegnere che completò la Morte Nera, la quale non ha mai avuto "il lusso di un'opinione politica" e che della bandiera dell'Impero non importa molto visto che "Non è un problema se non guardi in alto". Sarà grazie a un messaggio olografico del padre (un po' come succede a Luke e Obi-Wan nel capolavoro del '77) che inizierà a provare quel sentimento chiamato speranza. "Le ribellioni si fondano sulla speranza" dice prima di viaggiare verso Scarif "ribellandosi" all'Alleanza assieme a un gruppo variegato di soldati che credono in lei. Se la prima parte appare (almeno a una prima visione) leggermente confusa, è dalla seconda parte in poi che Rogue One mostra tutta  la sua energia diventando una vera e propria goduria. 

Gareth Edwards firma una pellicola potente ed emozionante, capace, a differenza de Il risveglio della forzadi centrare in pieno il cuore pulsante di Star Wars. Non c'è buonismo, lacrima facile, personaggi scritti con la penna senza inchiostro. Cassian Andor uccide un informatore senza fare una piega e Saw Gerrera è un estremista che si è allontanato dalla stessa Alleanza divenendo una sorta di ribelle terrorista. E nell'avvincente seconda parte del film avviene una vera e propria carneficina tra truppe imperiali e ribelli. Ma avviene un'altra cosa al di sotto della superficie: Jyn, Cassian, K-2SO, Imwe e Malbus prendono coscienza del sacrificio. Sono pronti a morire affinché l'Alleanza abbia la meglio sull'Impero. Perché Rogue One: A Star Wars Story vuole raccontare proprio questo: non c'è vittoria, battaglia, guerra senza il sacrificio. Un giorno, quei piani passati di soldato in soldato attraverso un corridoio in quegli splendidi minuti finali, porteranno un giovane Luke Skywalker a unirsi alla ribellione e a distruggere la Morte Nera donando alla galassia una speranza. Una nuova speranza. 

venerdì 14 ottobre 2016

Il Post (it) #7: Café Society (2016), Ave, Cesare! (2016), 31 (2016)

★★★
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Woody Allen quest'anno ci ha voluto fare un doppio regalo. Invece del solito film annuale ce ne ha regalato un altro sotto le mentite spoglie di serie Tv: la sua Crisis in Six Scene, infatti, è praticamente un film diviso in sei parti che vi consiglio caldamente di recuperare se gradite vedere un Allen ispiratissimo nei dialoghi e nelle situazioni. Ma qui parliamo del suo quarantaseiesimo lungometraggio (il primo interamente girato in digitale), quindi apriamo le danze senza indugio. Café Society narra la storia di Bobby  Dorfman (Jesse Eisenberg) che, negli anni '30, lascia l'amata New York per cercare un lavoro nell'assolata Los Angeles dove suo zio Phil Sterne (Steve Carell) è un importante agente cinematografico. Qui conoscerà e s'innamorerà di Vonnie (Kristen Stewart) il cui cuore, però, batte per una persona che Bobby conosce molto bene. 
Più delizioso e magico di Magic in The Moonlight, dieci volte più bello di Irrational Man, e quasi al livello di Blue JasmineCafé Society è a sorpresa uno dei più validi lavori del Woody Allen post-2000. Una costruzione maniacale degli anni '30, una fotografia sublime ad opera di Vittorio Storaro, e un cast ben diretto (eh sì, la Stewart sa recitare) all'interno di una storia d'amore, di crescita e di scelte, il tutto filtrato dallo sguardo pessimista (eppure ancora in grado di sognare) di un regista ottantenne il cui tocco è quello di un giovincello che si è appena innamorato del cinema. E dopo il finale agrodolce si chiede spontaneamente a Woody di non smettere mai di fare film. Perché ne abbiamo bisogno più che mai. 

★★★½
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Negli anni '50 Eddie Mannix (Josh Brolin), come il Mr. Wolfe di Q. Tarantino, risolve problemi; quelli delle star della Capitol Pictures. Senza la sua granitica e rassicurante presenza l'intera organizzazione crollerebbe su se stessa causando un cratere immenso. Quando la grande star del cinema Baird Whitlock (George Clooney) viene rapito dal set di Ave, Cesare! Eddie Mannix riceve una lettera di riscatto firmata da Il Futuro; onde evitare che il film perda il suo protagonista, Eddie Mannix, da uomo di ordine qual è, andrà fino in fondo alla faccenda. Riuscendoci oppure no? Questo sta agli spettatori. Ave, Cesare! dei mitici fratelli Coen è una cristallina e spassionata dichiarazione d'amore verso la settima arte. Eddie Mannix è l'eroe di questa storia. Deve mettere a tacere uno scandalo riguardante DeAnna Moren (Scarlett Johansson), incinta da nubile; convincere Laurence Laurentz (Ralph FIennes) che la star dei western Hobie Doyle (Alden Ehrenreich) è l'attore perfetto per il suo dramma in costume; e ovviamente ritrovare Baird Whitlock. Per fare cinema ci vuole ordine e metodo. Per rompere gli schemi bisogna conoscerli come le proprie tasche. Per raddrizzare le star e mandarle sul set ci vuole uno schiaffo di Eddie Mannix. La sua storia non finirà mai "perché il suo racconto è scritto con la luce eterna". La luce di Dio Cinema. 

★★★
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Rob Zombie is back. Dimessa l'impostazione quasi polanskiana del controverso Le streghe di Salem, il regista accoppiatosi con Sheri Moon Zombie (che a cinquant'anni ha il corpo di una ventenne) torna sui suoi passi sfornando un film horror grezzo, lurido e cattivo. 31 è una goduria di sangue, personaggi fuori di testa, sangue, morti truculente e soprattutto è l'unico film che può andare in giro a testa alta dicendo "C'abbiamo il miglior Joker dai tempi Jack Nicholson, altro che Suicide Staceppa". Infatti neanche il regista stesso si offenderebbe se qualcuno gli dicesse che vale la pena di vedere il film solo per l'interpretazione magistrale di Richard Brake, che in 31 è il killer Doom-Head, incaricato dai tre parrucconi (uno dei quali è Malcom McDowell), di mettere fine alla vita delle vittime rimaste in gioco. Alla fine la trama è questa: un gruppo di circensi viene rapito e costretto da tre bizzarri tipi abbigliati con abiti settecenteschi a partecipare a un gioco chiamato 31 dove vince chi rimane in vita per un tot di ore. Tra nani nazisti, vecchi col tutu e fratelli di motosega, ci sarà il ribaltamento dei ruoli: le vittime si trasformeranno presto in carnefici pronti a tutto pur di sopravvivere. Nel finale, come era già successo con La casa del diavolo, Rob Zombie (che non sbaglia un brano musicale neanche a pagarlo, ma che eccede in cinepresa a mano troppo spesso traballante) sfiora nuovamente la poesia. Da recuperare senza indugio. 

martedì 4 ottobre 2016

Strade perdute (1997)

Great Movies

★★★★
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In collaborazione con la mia morosa Federica

"Dick Laurent è morto". Questa frase enigmatica scuote la vita di due coniugi. Fred (Bill Pullman) è un jazzista, mentre di sua moglie Renee (Patricia Arquette) si conosce ben poco se non che è bellissima. Il matrimonio inizia a spezzarsi gradualmente dopo l'arrivo di tre videocassette che riguardano in modo sempre più morboso la loro vita privata fino a quando Fred non viene incolpato dell'omicidio di Renee. Segregato in una cella di massima sicurezza, l'uomo è continuamente preda di fortissimi mal di testa che lo porteranno a scoprire nuovi sconvolgenti lati della sua personalità.

Guardare un film di David Lynch è come esporsi a un colpo di pistola: il grilletto può incastrarsi, ma se la pallottola riesce a fuoruscire dalla canna c'è il rischio di essere colpiti e di vedersi scardinare certezze sia valoriali che cinematografiche. Strade perdute ne è un esempio; partendo da una semplice storia di gelosia morbosa, il regista mescola le carte per far penetrare lo spettatore dal suo stesso tarlo mentale ovvero la passione amorosa. Infatti essa rappresenta per Lynch un topos sul quale interrogarsi, capace di condurre spesso, se declinata in possesso morboso, a delle conseguenze tragiche e violente. La gelosia di Fred non poggia su delle basi instabili: alla richiesta di andare ad ascoltarlo al club, la moglie risponde dicendogli che leggerà, scatenando una risposta sarcastica del marito. I suoi dubbi sono confermati la sera stessa, quando, chiamando a casa alla conclusione dell'esibizione, non riceve risposta. Dove sarà Renee? E soprattutto, con chi?

I dubbi si amplificano su più temi nel momento in cui sulle scale di casa vengono rinvenute ogni mattina per tre giorni delle videocassette anonime che ritraggono sia l'esterno dell'abitazione sia l'interno. Che siano opera di un amante rifiutato? Questo potrebbe suggerire la diversa reazione dei due coniugi: mentre Renee è visibilmente scossa tanto da affidarsi alla polizia, Fred è quasi impassibile, si potrebbe azzardare soddisfatto, perché forse ottenuta la prova del tradimento di lei. Non è un caso, infatti, che dopo una festa a casa di un amico di Renee (Andy) Fred sia particolarmente suscettibile, riempiendola di domande sull'uomo conosciuto durante la giovane età e che Fred aveva precedentemente visto uscire assieme alla moglie dal locale in cui si esibisce. In un climax di tensione ascendente il sospetto si evolve da passivo ad attivo esplodendo nell'atto più violento possibile: l'uxoricidio. Fred, in un impeto di gelosia incontrollata di cui non è completamente consapevole, sembra aver ucciso sua moglie. Lo si può vedere dall'ultima videocassetta in cui è ritratto in un bagno di sangue con il cadavere di Renee ai suoi piedi.

Nessun spettatore potrà inizialmente avere la certezza che Fred sia colpevole. E forse neanche il protagonista stesso tanto che è lui a dire ai poliziotti che preferisce ricordare le cose a modo suo, non necessitando quindi dell'uso di una videocamera. Sarà solo la sua stessa mente a rivelarsi/ci l'esatta realtà degli eventi filtrata dalle tre istanze dell'io: secondo le topiche freudiane Es, Io e Super-io. La complessità del capolavoro lynchano risiede infatti tutta in questa tricotomia narrativa ben amalgamata tanto da rendere difficile la sua scissione. L'Es appare nella prima mezz'ora del film, rappresentato da un misterioso uomo in nero con il volto bianco. Egli si presenta a Fred dicendogli di conoscersi già precisando che non si reca mai nei luoghi dove non è invitato. Lo sgomento del protagonista è dovuto al fatto che l'uomo gli comunica di essere a casa sua e lo sfida a chiamarlo. In virtù del suo ruolo psicodinamico, spinge Fred a liberare i suoi istinti più beceri e animaleschi. Ed esso stesso rappresenta la morbosità attraverso l'uso di una videocamera che nelle parti conclusive seguirà il protagonista come una minaccia (comunque interna) per ciò che ha compiuto.

L'Io emerge in tutta la sua prepotenza dopo l'incarcerazione di Fred. Egli infatti non rimane nelle sue fattezze durante la segregazione, ma viene "sostituito" da un uomo di nome Pete (Balthazar Getty), finito dentro per reati di poco conto. Incredula, la polizia è costretta a rilasciarlo. Pete lavora come meccanico in un'officina, ha l'orecchio più sensibile della città, ed è visto come una risorsa da un gangster locale. Contrariamente a Fred è altamente performante con le donne tanto da esserne circondato. In termini psicodinamici, quindi, si potrebbe definire l'ideale dell'Io, ovvero ciò che Fred vorrebbe essere ma che invece non è. Pete si scontra con un altro ideale, la trasfigurazione di Renee che prende il nome di Alice; una dark lady che nonostante l'apparente interesse per il ragazzo conferma e racchiude con una frase finale tutte le paure di Fred ("Tu non mi avrai mai").

In ultimo vi è il Super-io rappresentato dal gangster che ha Pete sotto la sua ala protettiva (un indimenticabile Robert Loggia) e che nella mente di Fred è la trasfigurazione di Dick Laurent, l'uomo annunciato come morto all'inizio del film. La sua funzione normativa e regolatrice emerge chiaramente in due scene (di cui una gustosissima): inizialmente prende di mira un automobilista scalmanato a cui ricorda alcune regole del codice stradale; successivamente avvisa Pete che Alice è di sua proprietà e che ammazzerebbe chiunque avesse intenzione anche solo di sfiorarla. Paradossalmente sarà proprio lui a morire per primo per mano di Fred stesso spinto dall'Es (che gli passerà l'arma del delitto). La sua morte, annunciata al citofono da Fred a se stesso nella scena precedente il grandioso finale, sancisce la morte del Super-io e la liberazione totale dell'Es che potrà quindi macchiarsi del più crudele dei delitti.

In una narrazione opposta a quella, basata su una tematica similare, della sua più recente pellicola Mulholland Drive, il film dà spazio a un finale cromaticamente lynchano: inseguito dalla polizia (o dalle sue due istanze rimaste) Fred si immerge in un vellutato blu nel buio della notte urlando e contorcendosi dal dolore provocato dalle scosse elettriche a cui è condannato per il suo omicidio. Allo spettatore rimane solo questa lunga strada solitaria a cui si giunge dopo la perdita delle lost highways del protagonista, da percorre con un bagaglio di riflessioni e inquietudine che lascia senza fiato.

lunedì 26 settembre 2016

Il Post (it) #6: Election (2005), The Raid - Redemption (2011), Ichi The Killer (2001)

★★★★
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La potente triade di Hong Kong, come ogni due anni, deve eleggere il suo nuovo presidente tra due candidati: Lam Lok (Simon Yam) - pacato, riflessivo e molto apprezzato dai membri anziani - e Big D (Tony Leung Ka-Fai) - l'esatto opposto. Dopo discussioni polemiche da parte dei sostenitori dei due candidati viene eletto nuovo presidente Lam Lok. Ma Big D non prende affatto bene la notizia dimostrando il suo scontento con una serie di azioni, come impedire a Lok che gli venga dato il bastone simbolo della supremazia del leader, che porteranno la triade verso il suo primo delicato punto di rottura. Con Election il regista Johnnie To mette in scena una storia di potere centenario e di supremazia data dallo stringere tra le mani un semplice bastone di legno intagliato. Lok è il capo, ma fino a quando non avrà tra le mani questo sacro oggetto non lo sarà mai a tutti gli effetti. Può sembrare quantomai strano per uno spettatore occidentale assistere a questa guerra per il possesso dell'oggetto quando si è abituati ai gangster movie dove un battesimo di sangue chiude ogni tipo di contrattazione. Ma qui sta la bravura del regista: nel dipingere un mondo reale e crudo, fatto di uomini fedeli alla triade che entrano ed escono dalle proprie celle per parlare con capi della polizia e avvocati, un mondo con le sue regole, con il rispetto per gli antenati e con i suoi riti (bellissima la sequenza del giuramento), il tutto senza l'utilizzo di musiche che enfatizzino i momenti importanti. Il finale pazzesco mostra senza giri di parole inutili che chiunque ottenga il potere, l'idea di condividerlo è completamente inaccettabile. 

★★★★
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Siamo nei bassifondi di Giacarta. Una squadra operativa di 20 uomini guidata dall'ufficiale Rama (Iko Uwais), il sergente Jaka (Joe Taslim) e il tenente (Pierre Grunoè incaricata di stanare il pericoloso boss del crimine Tama Riyadi (Ray Sahetapy) che possiede un intero palazzo presieduto dai suoi sottoposti. Sarà una carneficina senza precedenti. The Raid - Redemption non è solo una carrellata di violenza gratuita: perché Gareth Evans confeziona e struttura un film vero e proprio, con una trama semplice ed efficace, farcendolo di combattimenti perfettamente coreografati e di un realismo soprannaturale. La fotografia anch'essa dura come i pugni del protagonista. Regia e montaggio di una qualità tecnica indiscutibile. E' impossibile che durante le riprese di The Raid nessuno si sia fatto male seriamente. Ci sono certe scene che sono in grado di procurare del dolore fisico. Gente che viene lanciata dal parapetto e atterra di schiena su quello sottostante rompendosela di netto (con tanto di crack), facce tagliate da macheti, teste che sbattono violentemente contro muri e stipiti delle porte. Nel finale (ottimo) avrei preso tutti quei registi che inseriscono scene al rallenty ad minchiam e li avrei sottoposti a una bella cura Ludovico. 

★★★★
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Ichi The Killer è follia violenta elevata all'ennesimo splatter. In ogni scena è come se il film volesse farti a pezzi. Non mi sono mai sentito così martoriato ed esausto se non dopo la visione di questa pellicola diretta da quel genio criminale di Takashi Miike. Ha degli amici che vogliono passare del tempo con lui? mi domando. Penso di no. Almeno io non lo vorrei neanche morto dopo essere stato torturato. Il prolifico regista nipponico ha esplorato qualsiasi genere armato del suo stile e di un bisogno fisico impellente di masticare e defecare cinema (l'immagine non è delle più poetiche, lo so). Forse non si arriverà mai ad annunciare "L'ultimo film di Takashi Miike!" perché troverà il modo di fare film anche dall'oltretomba. Tratto dall'omonimo manga di Hideo Yamamoto, la pellicola narra principalmente di un incontro: l'incontro tra il (molto sado)masochista Kakihara (Tadanobu Asano) e il sadico Ichi (Nao Omori), manovrato tramite ipnosi dal subdolo Jiji  (interpretato dal regista "figlio di Cronenberg" Shinya Tsukamoto), prende quasi la piega di un patologico melò. Kakihara lo attendeva da tutta una vita uno come Ichi. Quando il sadico arriva nella sua tana e stempia i suoi sottoposti invece di correre ai ripari Kakihara gli va incontro come un amante impaziente. E' talmente invaso dalla delusione quando Ichi si avviluppa in se stesso come un bambino qual è facendosi picchiare da Takeshi (il bambino a cui Ichi ha appena ucciso il padre) che Kakihara, nel finale, pur di non sentirne i pianti si buca i timpani con degli spilli. Ed è inutile, per noi, pensare anche solo lontanamente di trovare il modo di eliminare dalla mente le torture che il film ci ha inflitto. Per Ichi The Killer non ci sono spilli che tengano. 

martedì 6 settembre 2016

Velluto Blu (1986)

Recensione a cura della mia morosa Federica

★★★½
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Lumberton. Un nome anonimo per una cittadina di provincia tanto luminosa, quanto così apparentemente tranquilla da sembrare un locus amoenus puro e impeccabile.       
Su questo sfondo si muove silenziosamente la vicenda di Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan), uno studente costretto a lasciare il college per tornare a casa a causa della malattia paterna. È proprio al rientro dall'ultima visita al padre in ospedale che Jeffrey fa uno strano ritrovamento sull'erba: un orecchio umano, un reperto raccapricciante che al suo interno (mai espressione potrà essere più corretta) nasconde la vera faccia della cittadina americana: un sottosuolo da scoprire che pullula di insetti che si ingozzano di violenza, perversione e corruzione. Il canale Tv Iris, in occasione del trentennale della pellicola, ha deciso di regalare ai cinefili insonni della domenica un dono con carta da regalo di velluto e fiocco blu. Questa è stata infatti la meravigliosa possibilità che ho colto per recuperare questo famosissimo lungometraggio di David Lynch che segue cronologicamente, nella mia personale esperienza lynchiana, I Segreti di Twin Peaks, Fuoco Cammina con me, Mulholland Drive e Una Storia Vera. Proprio questi pregressi, successivi però al lancio sul grande schermo di Velluto Blu, permettono di vedere subito una falla precisa in quest’opera magistrale: l’immaturità di un regista già capace di giocare coi significati e gli oggetti messi in scena, ma non ancora pronto a sperimentare modalità eclettiche per farlo.

Velluto Blu è, nella sua linearità e chiarezza, “narrazione” nel senso più letterale del termine. Un modus narrandi che con la crescita Lynch (fortunatamente) perde a favore di una maggiore competenza visionaria di cui comunque si vedono già elementi, come piccoli indizi del genio, come antipasti preparatori di ciò che sconvolgerà le menti. In Velluto Blu Lynch fa quasi della linearità un mantra. Una sfida allo spettatore stesso, che rimane incollato per le due ore successive pur avendo praticamente già visto tutto nei primi minuti. Bastano infatti pochi fotogrammi e tutto è già svelato: la provincia così luminosa, così colorata, con delle tinte talmente saturate da far sembrare le strade di Lumberton un set pubblicitario, cela del marcio. Il buio è nascosto forzatamente in una bellissima sinestesia dalla canzone di Bobby Vinton che ispira il titolo stesso del film. Lynch carica il volume del brano, quasi a voler creare un ossimoro con ciò che vediamo di più infinitesimale e contrastante in modo sinestetico: gli insetti.  

In questo gioco di figure retoriche dei sensi della vista e dell’udito, ciò che è bellissimo nel macroscopico a un occhio poco attento diventa subito spaventoso nel microscopico, nelle profondità. Questa divisione tra torbido e lucente è visibile anche dalle scelte cromatiche: oltre alle tinte iniziali, un perfetto esempio è il percorso alla luce del sole delle scale per arrivare all'interno sette dove abita Dorothy (Isabella Rossellini). In questo contrasto anche di interni e di esterni lentamente la luminosità si perde, a favore di ambienti sempre più contrastati e toni scuri. Coloristicamente c’è però un'eccezione: “l’uomo giallo”. Il colore dei suoi abiti, perennemente uguale, sembra stridente e altamente comunicativo, tanto da prestarsi a una molteplicità di interpretazioni. Considerando il ruolo del personaggio, corrotto pur essendo al servizio della comunità, la scelta cromatica nasconde da un lato la volontà di sottolineare, tramite il tono usato per eccellenza come evidenziatore, la presenza di un’essenza sudicia anche e soprattutto in ciò che appare e dovrebbe essere inattaccabile. Dall'altro è un campanello precisamente contestualizzato nella dinamica narrativa lineare adottata: ancora una volta Lynch ci sbatte davanti agli occhi la contraddizione più esperita nelle nostre vite: spesso il buio si nasconde proprio sotto i nostri occhi, anche nelle modalità più semplici. Peccato non essere capaci di coglierlo.           

Gli accenni sinestetici che aprono la pellicola tornano ancora più precisi nell’immagine utilizzata per mettere in scena l’intenzione narrativa: l’orecchio. Velluto Blu è un’opera visiva che si centra e si snoda su un organo uditivo. In varie interviste Lynch ha spiegato che la scelta dell’orecchio ha per certi versi una motivazione, ma è impossibile non apprezzare anche per questa duplicità sensoriale la sublime scelta delle due inquadrature dell'orecchio aprono e chiudono la vicenda. Esse sono contrapposte: in quella iniziale si entra nell'orecchio, quasi volendo analizzare il più piccolo dettaglio del tessuto epiteliale (passaggio tenebroso al microcosmo della provincia), mentre nella conclusiva ci si apre a un mondo, di onirica premonizione, di pettirossi che mangiano gli insetti.            
Il taglio dell’orecchio (che quasi proviamo sulla nostra pelle quando, dopo essere stato annunciato nell'ufficio del detective, è ripreso acusticamente da un taglio del nastro della polizia), in una dimensione dove il sottofondo musicale, nelle note omonime e non solo, è preponderante e telo per nascondere ciò che nessuno deve vedere e sapere, è quasi uno squarcio netto di silenzio (silenziosa è stata infatti definita inizialmente la vicenda di Jeffrey) dopo tanto assordante rumore.          

La costruzione dei personaggi offre sicuramente altrettanta ricchezza. Lynch concentra tutto il suo genio in fieri in Frank (Dennis Hopper), una figura decisamente rumorosa (è lui stesso a chiedere a Ben di cantare In Dreams e a usare la versione di Blue Velvet dello Slow Club quasi come tranquillante mentre stringe un brandello di velluto blu della vestaglia di Dorothy) nel tentativo di aprire una crepa di silenzio. Egli rappresenta un classico caso di personalità multipla (facilitato dal gas) su base traumatica dovuta all'abuso in tenera età da parte di entrambi i genitori, che lo costringe ad assumere e a far assumere i ruoli del bambino, della madre o del padre nella dimensione sessuale. La stessa situazione della sessualità morbosa, malsana e brutale, in cui si cala anche la sua vittima traendone piacere, forse per identificazione con l'aggressore come mi suggerisce la mia deformazione professionale, è frutto della violenza subita in età infantile. Anche in questo caso Lynch pecca di self-disclosure delle sue intenzioni narrative: nella sovrapposizione finale tra Frank e l’uomo con la valigia fotografato nell'incontro con l’uomo in giallo è come se si volesse inoculare nello spettatore la riflessione sul tema del doppio che, amplificato e contestualizzato, potrebbe non solo richiamare la duplicità della personalità ma anche quella tra microscopico e macroscopico a cui precedentemente accennato.   

Sandy, pur essendo un personaggio non totalmente inglobato nella vicenda, sembra quasi voler rappresentare l'estremo opposto di Frank, anche coloristicamente parlando. Spesso vestita con toni rosati, come se fosse una donna angelica che poco si mescola al marcio della città perché non ha per nulla queste caratteristiche (“Sei una brava ragazza” le dice proprio Jeffrey) e che, in un parallelismo con la Beatrice dantesca, porta direttamente (è infatti lei a fungere da catalizzatore per la curiosità di Jeffrey) a un percorso di conoscenza e di esperienza del personaggio nei bassifondi infernali per poi liberarlo e fargli raggiungere una "candida rosa" di pettirossi.       

In questo Lynch già molto pieno di contenuto, l’eccessiva e deludente comprensibilità narrativa si salva in corner grazie a piccole briciole che solleticano il flusso mentale preparatorio alle più complesse opere lynchiane. Chi ha visto Mulholland Drive non può non aver notato già in questo caso l'attenzione ai cartelli stradali e ai luoghi in cui avvengono alcune vicende o un certo parallelismo tra la condizione che prelude al secondo incontro tra Dorothy e Jeffrey e al primo tra Rita e Betty. I personaggi per entrare in contatto devono nascondersi l'uno all'altro nella casa di uno dei due, che in entrambi i casi è a suo modo un artista. Le stesse scene dello Slow Club rimandano per assonanza al Club Silencio: manca la tensione poetica che arriverà solo nel 2001, ma il dettaglio allegorico delle tende rosse è già un bel segnale della produzione futura. Anche il richiamo a Twin Peaks risuona preponderante in molte scelte. Velluto Blu si articola in una profonda ricerca degli oscuri segreti della provincia all'apparenza perfetta che daranno poi il nome a quelli di un’altra cittadina in cui l’agente a capo delle indagini sarà proprio Kyle MacLachlan.          

Lo stesso Jeffrey in qualche modo si riallaccia a Laura Palmer: al risveglio dopo la tremenda notte che non è stata affatto “un giro del piacere”, è sicuramente vivo, non avvolto nella plastica e il colore della sua pelle non parla di morte. Egli però si ritrova comunque in un luogo d’acqua, più precisamente un lago, la sua pelle ha i colori della tumefazione e porta con sé della sabbiolina simile a quella sulla fronte di Laura.   
Frank sembra poi essere una costruzione prodromica di Bob: egli non rappresenta il male, ma una modalità in cui tale astrazione (rappresentata concretamente in un’entità nella famosa serie) può esprimersi.   
Ciò che è più notevole è però una dicotomia sottile che torna come un’assonanza in entrambi i casi: il peggior nemico dei giovani (e quindi di ciascuno di noi che in potenza, aristotelicamente parlando, sarà un adulto) sembra essere la noia, il migliore amico il mistero. La noia e, per certi versi, l’equilibrio permettono di insinuarsi nelle vicende più disparate, di aprire portoni proibiti che fanno lasciare sulla soglia la muta dell’innocenza per comprendere la vita di una donna dell'interno sette o per finire nel giro del One Eyed Jacks. Insito in noi perciò non sembra esserci nient’altro che un desiderio di palingenesi continua, come ci sottolineano gli ultimi fotogrammi completamente sovrapponibili a quelli iniziali: se solo i pettirossi fossero sempre vivi per mangiare insetti, saremmo veramente capaci di esistere? E potrebbe davvero esistere un mondo talmente utopico o è solo l’ennesima facciata di sicurezza di cui necessitiamo?           

Nel finale, unica perla di non linearità di quest’opera, facilmente confondibile con i rassicuranti toni della speranza, David Lynch ci ricorda che, pur illudendoci del contrario, siamo condannati a colori luminosi e poco contrastati di cui abbiamo profondamente bisogno e a un macrocosmo che deve continuare a bendarci gli occhi per mezzo di un assordante Blue Velvet di sottofondo.

lunedì 29 agosto 2016

Suicide Squad (2016)

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L'agente governativo Amanda Waller (Viola Davis) decide di assemblare la Task Force X ovvero una squadra composta solo da super-criminali - Harley Quinn (Margot Robbie), ovvero la morosa del Joker (Jared Leto), l'infallibile cecchino Deadshot (Will Smith), il pirocinetico El Diablo (Jay Henrnandez), il ladro Capitan Boomerang (Jai Courtney) e il mostro Killer Croc - da utilizzare come pedine in missioni rischiose.  La trama termina qui per mancanza della materia stessa di cui è fatta una trama. 

"Siamo cattivi. Siamo fatti così" dice l'Harley Quinn interpretata da Margot Robbie non dopo aver sparato in mezzo agli occhi di un povero clochard o dopo aver torturato un bambino, no, lo dice dopo aver rotto la vetrina di un negozio ed essersi chinata per prendere una borsetta. Che cattiveria, eh? Che cattivi che sono i protagonisti di Suicide Squad. E il film di David Ayer non fa che ripeterlo e ripeterlo e ripeterlo. La verità però è che i membri della task force suicida sono acefali testosteronici che fanno a gara a chi fa lo sguardo più da duro; e Viola Davis - senza alcun costume o pelle squamosa o tatuaggi tamarri - rende di ghiaccio le gonadi molto meglio di quanto riesca a fare l'orrendo, osceno e ignobile Joker di Jared Leto, un emo tamarro dagli impulsi adolescenti dalla cui bocca a rana non esce mai nulla di inquietante, surreale o folle. 

Per la prima ora David Ayer si preoccupa di presentare tutti i personaggi mediante sempre lo stesso schema: musichetta-flashback-quanto-sono-cattivo. Tolta una sensuale Margot Robbie e una carismatica Viola Davis, il cast si compone solo di sconosciuti inespressivi tombali capitanati dall'espressivo-quanto-un-frigorifero Will Smith che qualsiasi ruolo faccia sembra sempre il padre de La ricerca della felicità. Essi non interpretano dei cattivi puri bensì degli emarginati sociali che si sono trovati dall'altra parte della barricata più per costrizione che non per scelta. Della serie: non siamo cattivi, è che ci dipingono così. 

Per la seconda ora invece assistiamo alla missione suicida dei cattivoni DC: andare in una zona di New York - e nel film la città sembra grande quanto Roccaccannuccia - dove la strega millenaria Incantatrice, che possiede la dottoressa Moon (interpretata dalla staffellosa Cara Delevingne), e suo fratello Coso chiamato solo "Fratello", stanno gettando il panico in mezzo al nulla e alimentando un cono energetico la cui utilità ci è indecifrabile. E questo è quello che avrebbe dovuto essere il cinecomic scorretto, cattivo (repetita iuvant) e psichedelico in grado di far orinare in dosso la Marvel? No, è solo una noiosissima festa dei coscritti criminali che dopo manco un'ora che si conoscono uno di loro (El Diablo) arriva a dichiarare convinto "Ho già perso una famiglia, non ne perderò un'altra"

Suicide Squad, sfruttando il potenziale dei personaggi messi in campo, avrebbe potuto rappresentare una rivoluzione nel campo dei cinecomics, sprizzare veramente cattiveria da tutti i pori, inondare lo spettatore di immagini violente e divertirlo con azione esaltante, invece, fingendosi più cattivo e politicamente scorretto di quel che è, finisce per essere un prodotto più buonista, ingenuo e rozzo del solito. 

P.s. Il momento clou in slow motion mi ha fatto rimpiangere i rallenty di Zack Snyder. E ho detto tutto. 

giovedì 28 luglio 2016

Il Post (it) #5: Stranger Things (Stagione 1), It Follows (2014), Facciamola finita (2013)

★★★½

6 Novembre 1984. Una sera, la vita di un quadretto di amici (Will, Mike, Dustin e Lucas) che si divertono a giocare a emozionanti campagne anche di dieci ore a Dungeons and Dragons, che comunicano con enormi walkie-talkie, e hanno appesi in casa poster di film quali La cosa di J. Carpenter, La casa di S. Raimi e Lo squalo di S. Spielberg, cambia per sempre: Will, rincorso nella notte da una misteriosa creatura, sparisce nel nulla; una misteriosa ragazzina con un camice e la testa rasata scappa dalla struttura dov'era tenuta prigioniera e s'imbatte nel gruppo di amici; il burbero ma buono sceriffo del paese indaga sulla sparizione del ragazzino spinto dalla sofferente preoccupazione della madre Joyce. Stranger Things non è, come si potrebbe pensare già dalla splendida locandina, una mera operazione nostalgia verso gli anni '80; perché sotto la patina di citazioni e omaggi cinematografici e letterari, oltre a una colonna sonora tanto bella quanto furbetta, si nasconde una bella storia dalla solida struttura e con un cast di attori in grado di dare vita a personaggi che è impossibile non voler bene. Penso che il simpatico Dustin, chiamato Senzadenti, entrerà nelle grazie di tutti per il suo modo di fare (se in preparazione a una spedizione Lucas sparpaglia sul tavolo fionde, binocoli e bandane alla Rambo, lui sotterra tutti sotto una montagna di merendine e frutta perché le armi mica rigenerano le forze!). Stranger Things, pur non essendo il capolavoro a cui tutti si sono inginocchiati devotamente, è una buona serie, con ottime frecce al suo arco, che divorerete in un giorno solo. 
Una domanda per chi l'ha vista: preferireste che la serie fosse antologica oppure il finale vi invoglia a scoprire come saranno trattati i punti lasciati in sospeso? 

★★★

Una ragazza esce di casa mezza nuda intenta a guardarsi le spalle visibilmente scossa. Prende l'auto e raggiunge una spiaggia deserta dove telefona ai suoi genitori per dir loro che ha sempre voluto bene a entrambi. Il mattino dopo la ragazza è un cadavere brutalmente scomposto. Chi è stato a farle questo? E' stato un uomo, una donna oppure una misteriosa entità? Nel frattempo Jade esce con ...: dopo aver fatto sesso lui la cloroformizza. Quando il ragazzo gli spiegherà cosa le ha passato si apriranno per lei le porte di un incubo lento e inesorabile. Tocchi qui e là di carpenteriana memoria. Si è immersi in uno stato di allerta perenne. Dal punto di vista tecnico a It Follows non manca nulla: dalla fotografia alla colonna sonora tutto è ben curato. Spicca la regia di David Robert Mitchell che con inquadrature fisse, piani sequenza e pochi tagli di montaggio confeziona un horror interessante, al cui interno non manca una velata critica alla facilità con cui i giovani hanno rapporti sessuali, ma che dimentica per strada l'elemento più banale, se così vogliamo dire, di cui deve essere fatto un horror: la paura. It Follows angoscia, mette ansia, ma paura no, neanche per sbaglio. Peccato. 


★★★½

Jay Baruchel (il protagonista di Man Seeking Woman) raggiunge l'odiata Los Angeles per trovare il suo amico Seth Rogen. I due, dopo aver passato delle ore in compagnia di videogiochi e canne, si recano alla festa di James Franco nella sua nuova casa interamente progettata da lui. Dopo aver gozzovigliato e conosciuto le altre star di Hollywood quali Jonah Hill, Michael Cera, Craig Robinson ed Emma Watson, i due escono per acquistare una bibita e qui scoppia il finimondo - nel senso letterale del termine. Dopo un fortissimo terremoto degli strani coni di luce blu avvolgono le anime buone e le risucchiano fino in Paradiso. Delle star non si salva nessuno. Tenteranno di sopravvivere all'Apocalisse anche se il loro essere meschini, bugiardi ed egoisti renderà la missione più complessa del previsto. In Facciamola finita - pessima traduzione di This is the End -, commedia surreale e demenziale scritta e diretta da Seth Rogen ed Evan Goldberg (gli stessi che recentemente hanno sviluppato e portato sul piccolo schermo lo stranissimo ed esaltante Preacher), alcuni giovani attori dello scintillante star system di Hollywood si mettono alla gogna autocriticandosi e ridicolizzandosi dimostrando infine di avere quell'autoironia che nella vita serve sempre. Tra omaggi cinematografici, scambi di battute tanto esilaranti quanto volgari, Facciamola finita è una di quelle commedie che si rivedono volentieri anche più di una volta. Anche solo per il WTF finale che mi ha steso. 

venerdì 22 luglio 2016

Il Post (it) #4: Penny Dreadful (Stagione 3), Veep (Stagione 5), Game of Thrones (Stagione 6)

★★★★

Forse è stata la serie Tv più sensuale ed elegante degli ultimi tre anni. Penny Dreadful si è sempre differenziata dagli altri prodotti della serialità americana per toni, ambientazioni, dialoghi, costumi e temi trattati. Eva Green è semplicemente Penny Dreadful. La sua Vanessa Ives ci ha fatto compagnia tre anni e nella sua lunga battaglia contro le forze del male abbiamo avuto l'occasione di ammirarne la fede tenace, la volontà di vivere una vita normale senza più lotte con i demoni. Su tutto l'ottimo cast spicca Rory Kinnear. La creatura che il dottor Frankeinsten strappa dall'abbraccio gelido della morte e che da allora non trova più conforto tra gli uomini, che lo ripudiano per il suo aspetto, e si affida all'universale musicalità della poesia. E poi quest'anno John Logan firma uno degli episodi più belli mai scritti. L'episodio 4 intitolato A Blade of Grass vede due attori in scena all'interno di una stanza foderata di cuscini e basta, stop. Tutto il resto è dialoghi poetici, prove attoriali straordinarie e una regia completamente al loro servizio. Il creatore/produttore/sceneggiatore John Logan ha raccontato le vite di diversi personaggi della Londra ottocentesca (alcuni facenti parte della letteratura come Dracula, Victor Frankeinstein e la sua Creatura, Dorian Grey, il dottor Jekyll e Mr. Hide) mostrandoci i loro desideri più torbidi, i rimorsi che rosicchiano i cuori, i sogni inghiottiti dalla nebbia, i progetti più oscuri e pericolosi, le colpe che pesano sulle anime tormentate, sempre con un tocco elegante e un tatto sensibile che ha contraddistinto la serie in questi tre anni. Penny Dreadful, con la sua fotografia glaciale e le macabre vicende fatte di sangue, ossa, carne, miti e leggende, è stata un raggio di sole nella serialità americana che non si scorderà mai. Con l'episodio nove di questa terza stagione si è messa la parola fine a questa raffinata creatura che proprio come Dorian Grey sarà sempre qui quando torneremo a posarci sopra lo sguardo. Per sempre. 

★★★★

Veep. La vicepresidente Selina Meyer ne ha fatta di strada (e di papere, soprattutto). E' arrivata sulla vetta della politica andando a poggiare le terga sulla poltrona dello Studio Ovale sempre attorniata dal suo irresistibile staff. Ma la sua presidenza poteva mai scorrere tranquilla senza impedimenti e pasticci? La risposta è semplice: no. Ed ecco che alla fine della brillante quarta stagione avviene un pareggio alle elezioni presidenziali. E mo' che si fa? Ma mi sembra ovvio: si cerca di stare attaccati alla poltrona con le unghie, con i denti, con i capelli, con qualsiasi cosa a disposizione. Senza farla troppo lunga (e assurdamente noiosa), si sono superati. Pur non essendo più showrunner, Armando Iannucci, affidando la sua creatura nelle mani di David Mandel & Co., ha semplicemente compiuto la miglior scelta possibile perché questa quinta annata di una delle migliori serie Tv in circolazione è stata esilarante, fulminante e, con gli ultimi due episodi, coraggiosissima. House of Cards - che si è contraddistinta con una quarta stagione apprezzatissima dal sottoscritto - non avrebbe mai l'ardire di percorrere la strada imboccata a testa alta da Veep nell'ultimo sconvolgente episodio. Sinceramente mi corre un brivido o due a pensare a cosa potrà venir fuori dalla sesta stagione. Non vedo l'ora. 


½

Non se ne può sinceramente più. Gli sceneggiatori di Game of Thrones dovrebbero essere presi assieme a quelli di The Walking Dead e messi su un treno direzione inferno, inferno città, senza possibilità di ritorno. Mandano in vacca storyline solo perché non hanno la più pallida idea di come farle proseguire (vedasi Dorne), assumono un attore del calibro di Ian McShane facendolo recitare per un solo episodio peraltro in un ruolo marginale (citiamo anche Max Von Sydow nei panni del Corvo con Tre Occhi), terminano quasi tutti gli episodi con sti cazzo di draghi e con Downerys che si è messa a fare comizi elettorali come una Donald Hilary Trump qualsiasi, scrivono ad minchiam i personaggi (Cersei ridotta a tre battute in croce, Jaime, ormai promesso alla bidimensionalità, l'hanno rovinato) salvo poi inserire una giovanissima Lyanna Mormont la cui giovanissima attrice caga in testa a mezzo cast di sfaticati. Tolta la scena di Hodor, il nono episodio tutto sommato ben diretto (nella media mediocre si fa anche in fretta) e con dei graditi omaggi a Il signore degli anelli, e i minuti iniziali del finale che precedono la grande esplosione di Slurm (non ho saputo resistere, scusate), con la sesta stagione Game of Thrones conferma di essere portatrice sana di sciatteria la cui attenzione che le viene data non solo dal pubblico, ma dalla giuria carampana degli Emmy Awards, i quali hanno ormai la credibilità di un Telegatto qualsiasi, è completamente e sonoramente immeritata. L'unica speranza? Che Georgione nostro finisca presto la saga cartacea mettendo ordine nel guazzabuglio creato da questi incompetenti.

venerdì 10 giugno 2016

Il Post (it) #3: American Crime Story - The People v. O. J. Simpson (Stagione 1), Jane The Virgin (Stagione 2), Modern Family (Stagione 1 e 2)

★★★★

"If it doesn't fit, you must acquit"

Senza star qui un anno ad arringare manco fossimo dentro un'aula di tribunale il mio verdetto su American Crime Story - The People v. O. J. Simpson è presto detto: la serie Tv prodotta e diretta da Ryan Murphy (creatore di quelle ciofeche di American Horror StoryGlee  e Scream Queens) è tra i migliori prodotti seriali dell'anno. Tutti almeno una volta avranno sentito parlare di O. J. Simpson, giocatore di football professionista nonché attore di spot e film quali Una pallottola spuntata, che il 12 giugno del 1994 fu accusato del duplice omicidio della sua ex moglie Nicole Brown Simpson e del cameriere Ronald Goldman. Da quel giorno partì un processo che tenne incollato agli schermi l'intero popolo americano fino al verdetto avvenuto il 3 ottobre del 1995. Il cast è superbo: Cuba Gooding Jr., pur non essendo affatto somigliante al vero O. J., restituisce il vivido ritratto di un uomo abituato a essere venerato; e che quando la sua immagine viene messa in discussione, sembra uscire da se stesso, sempre in cerca del più flebile barlume della sua celebrità. Sarah Paulson, che interpreta Marcia Clark, determinata procuratore distrettuale divisa tra lavoro e i figli di cui vuole ottenere la discussione esclusiva dall'ex marito, dà il suo meglio in coppia con Sterling K. Brown (Christopher Darden): quando sono al tavolo dell'accusa, e ascoltano i discorsi della difesa, nei loro occhi appare il tarlo dell'angoscia e del dubbio. La voce di Brown, poi, è tra le più calme e affettate che abbia mai sentito. John Travolta invece è Robert Shapiro, avvocato dei vip, tipo borioso e dai gesti calcolati. David Schwimmer (il Ross di Friends) è Robert Kardashian, amico fraterno di O. J., uomo dalla personalità appannata e dalla verve di un lombrico, che durante il processo inizia a dubitare dell'innocenza del suo amico. Infine c'è lo straordinario Courtney B. Vance che interpreta l'orca assassina Johnnie Cochran, avvocato sanguigno e teatrale in aula quanto uomo banale e con scheletri nell'armadio nella sua vita dietro i riflettori. E' incredibile come un processo per duplice omicidio si sia trasformato in un processo razziale contro la polizia razzista di Los Angeles. "Bianchi che incolpavano un nero famoso di omicidio? Sempre la stessa storia. Basta che un nero faccia successo perché i bianchi si sentano minacciati e infastiditi". Io mi chiedo come abbia fatto la black community a sentirsi rappresentata da un'idiota come O. J. Simpson. Un uomo di talento sportivo innegabile che non era diverso dai bianchi: feste di lusso, droga, escort, eccessi. E violenza domestica. Scene drammatiche come le lacrime del padre di Ron Goldman di fronte a Marcia Clark, l'abbraccio di Chris Darden alla famiglia delle vittime, sono di un'umanità devastante. American Crime Story, prendendo in esame uno dei processi più famosi della storia, porta alla luce le ennesime mele marce dal cesto degli Stati Uniti d'America ovvero il razzismo e la corruzione dilagante nel dipartimento di polizia di Los Angeles, gli avvocati pavoni dalle parcelle dorate che si esibiscono in aula proprio come degli attori sul set e che utilizzano la carta della razza per annebbiare il giudizio del popolo, l'attenzione morbosa dei mass media verso le facezie (come l'antiquata pettinatura del procuratore distrettuale Marcia Clark) e il sessismo. Uno show da recuperare senza indugi. 


★★★½

Jane Gloriana Villanueva ha partorito. Essendo vergine. Miracolo. Com'è Jane The Virgin, latineggiante serie Tv che ha dalla sua una dose massiccia di autoironia, il sano divertimento che traspare dal cast e l'intenzione del team di sceneggiatori di rafforzare un proprio stile di scrittura e di messa in scena. Con l'uso dell'immancabile voce narrante (forse il personaggio migliore della serie), delle scritte a macchina che appaiono sullo schermo per facilitare la comprensione delle scene o per aggiungere informazioni recondite, strutturando ogni episodio con un gioco di incastri e riferimenti veramente efficaci, e passando, infine, per omaggi (tanto inattesi quanto graditi) a serie quali Scandal e Man Seeking Woman, la seconda stagione di Jane The Virgin è stato un appuntamento settimanale imperdibile che ha ripagato (quasi) sempre. Se da una parte Gina Rodriguez conferma di essere un'attrice comica con i tempi giusti, oltre che una bellezza espressiva e per nulla impostata, nonostante però il suo personaggio abbia preso una spiacevole piega da so-fare-tutto-io verso gli ultimi episodi, dall'altra Yael Grobglas, ritrovatasi a dover interpretare la sua sorella gemella Anezka, ha dimostrato tutto il suo talento adottando tono di voce, gesti e tic completamente avulsi dalla compostezza elegante che ne caratterizza la bionda Petra Solano. Ultima cosa: non commettete l'errore di considerare Jane The Virgin un guilty pleasure perché per scrivere un episodio di questa serie si deve essere dotati di intelligenza, humour e passione. Trovatemi una qualsiasi telenovela che vi porge con arguzia un riferimento a Il Grande Lebowski e mi rimangerò tutto. 
P.s. Finale di stagione shocking. 


★★★

Modern Family - rinnovato per un'ottava stagione - è stata una delle mie ritardatarie scoperte di quest'anno. Confezionato come un finto documentario, la serie della ABC si basa sulle vicende della famiglia Pritchett, una famiglia moderna e allargata che ha un unico comune denominatore: le risate. Partiamo da quello che è diventato uno dei miei personaggi comici preferiti ovvero Phil Dunphy (Ty Burrell). Padre di tre figli (Haley, Alex e Luke), sposato con Claire (Julie Bowen) da quasi vent'anni, è il ritratto dell'uomo che sarò (o che vorrei già essere) tra vent'anni: buffo, surreale, capace di far ridere pure una pietra, con la testa sulle nuvole e il corpo poco presente a se stesso, e allo stesso tempo amorevole, fedele, leale e comprensivo. Poi abbiamo Jay Pritchett (Ed O'Neill) sposato con la bellissima Gloria (Sofia Vergara) di trent'anni più giovane (colombiana dal sangue caliente) che ha un figlio, Manny, il quale è un piccolo ometto racchiuso nel corpo di un bambino di dieci anni (esilarante l'episodio in cui si festeggia il suo compleanno). E poi abbiamo Mitchell (Jesse Tyler Ferguson) e Cameron (Eric Stonestreet), avvocato lui e casalingo/clown/cantante/organizzatore lui, che hanno adottato la piccola Lily di origine vietnamita. Queste prime due stagioni scorrono che è una bellezza grazie a una scrittura mai banale e a un cast in grado di entrare nelle grazie dei telespettatori fin dalle primissime puntate (amerete subito Phil con Ladri di biciclette). Se non l'avete mai recuperata, e desiderate farvi quelle proverbiali quattro sane risate, allora è il momento di farlo. 

lunedì 6 giugno 2016

AND THE LIEBSTER AWARD 2016 GOES TO...


I premi fanno piacere a tutti; se poi se ne ricevono due da due colleghi stimati allora è ancora meglio. Voglio ringraziare Kris Kelvin di Solaris e Alfonso Maiorino di Non c'è paragone che hanno deciso consapevolmente di premiare il mio blog nonostante una latitanza che ha preso la piega della serialità televisiva. Senza indugio andiamo a iniziare. 

Ecco le regole del Liebster Award 2016 in breve: 

1) ringraziare e rispondere alle undici domande di chi ti ha premiato
2) scrivere undici notizie/curiosità su te stesso
3) premiare altri undici blogger "meritevoli" (che non raggiungano i 200 followers)
4) comunicare la vincita sulle bacheche dei blog premiati
5) proporre ai premiati altre undici domande


Le risposte alle domande poste da Kris Kelvin di Solaris

1) Il regista più sopravvalutato?
Steven Spielberg, of course. 
2) Il regista più sottovalutato?
Michael Mann. 
3) Cosa rispondi a chi dice "era meglio il libro"?
Se lo dice dopo aver visto Shining gli dò una badilata in testa, se invece lo dice riferito al film La Bussola d'oro allora pacca sulla spalla. A parte gli scherzi, essendo letteratura e cinema forme d'arte molto diverse, penso dipenda molto dal talento e dalla sensibilità del regista che dal cartaceo ne trae un film perché spesso tagliuzzando-modificando-inserendo il film può essere decisamente meglio del libro. 
4) Il film che "ce l'hai lì da vedere" ma non ne hai il coraggio...
Farò un epic fail ma tant'è: L'esorcista. Ahò, c'ho una fifa nera. 
5) Il film che avresti voluto vedere al cinema.
Il padrino. Datemi una macchina del tempo, please. 
6) Il film che hai visto più volte.
Se la giocano Scarface di De Palma e ovviamente Il padrino di Coppola. 
7) Sei mai uscito dal cinema prima della fine di un film?
No, anche se era una ciofeca. 
8) Sei favorevole all'intervallo al cinema?
Assolutamente no. Andate al cesso prima della proiezione, giuda ballerino. 
9) Quanta strada sei disposto a fare per vedere un film che non viene programmato vicino a te?
Sono pigrissimo, il massimo è 50 km. 
10) Quanto tempo dedichi al tuo blog?
Prima molto più tempo ora mooolto meno. Scusate, lettori, tornerò in carreggiata, promesso. 
11) Come hai scelto il nome del tuo blog?
E' la fusione tra Denny e Scrivere ;)

Le risposte alle domande poste da Alfonso Maiorino di Non c'è paragone

1) Qual è il film che piace a tutti, ma tu odi impunemente?
La trilogia del latte alle ginocchia: Dirty Dancing, Flashdance, Ghost.

2) Il tuo lavoro/ambito di studio ha a che fare con il cinema oppure fai 
tutt'altro?

Scrivo di Tv, ma voi incrociate le dita per una cosa, eh. 
3) Che sport segui?
Nessuno.
4) Cosa succede nella tua testa cuando noti un errore grammaticale gravissimo?
Presente la scena finale de Il dottor Stranamore? Ecco, succede quello. 
5) Qual è il tuo libro preferito?
Umm, "io sono un fautore della legge" come dice Ricky Roma in Americani ergo ne dirò due: Grandi speranze di Dickens e Meridiano di sangue di McCarthy. 
6) E uno che hai cominciato ma non sei mai riuscito a finire?
Il signore degli Anelli. Un mattone indigesto e assolutamente non necessario. 
7) Hai mai messo una canzone in repeat talmente tante volte da impararla a 
memoria subito?
When Wee Were Young di Adele. Sì, cazzo, amo Adele e la sua voce è Patrimonio dell'Umanità.
8) Qual è la cosa di poco conto che ti fa più incazzare al mondo?
Quando la gente sputa per strada come dei lama. 
9) Amore o odio? Ammazzamenti o baci e abbracci?
Amore e ammazzamenti ovvero Kill Bill :)
10) Sei una brava persona come me che detesta le ship nelle serie TV oppure sei una di quelle che se non shippano muoiono dentro?
Io odio coloro che guardano le serie per trovare le ship. Si trovassero un gatto o un cane o qualcuno che li sopporti. 
11) Dì il nome di un paesino sconosciuto ai più che a te piace tantissimo.
Monte Giberto


Ecco le undici notizie/curiosità su me stesso che nessuno ha richiesto:

1) Ho fatto indigestione di ciambelle una settimana fa. 
2) Ho tanti di quei film da recuperare che non mi basterebbero tre vite.
3) Da diversi mesi ho una nuova droga: le serie Tv. Chi mi legge se ne sarà accorto.
4) Piango da quando inizia C'era una volta in America a quando finisce. Ininterrottamente. 
5) Mi spaventavo per qualsiasi film horror vedessi, ora mi sono fatto più coraggioso. Ma non chiedetemi di vedere L'esorcista, non ce la fò. 
6) Temo che Giorgino Martin possa schiattare prima di terminare le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco. 
7) Amo, amo, amo il trash.
8) In Maria De Filippi I'm Trust.
9) Dopo queste due ultime confessioni ho perso i lettori che mi rimanevano, vero? 
10) Ho scoperto da poco la bellezza del personaggio di John Locke di Lost. Avrei voluto crearlo io.
11) Al Pacino è Dio. Se qualcuno se lo fosse dimenticato. 

And the Liebster Award goes to...

Recensioni Ribelli

Solaris
Cinematografia Patologica 
Mari's Red Room
Non c'è paragone
Combinazione Casuale
La fabbrica dei sogni
Delicatamente Perfido
Director's Cult
Scratchbook
Ieri, oggi, domani

Le undici domande a cui dovranno rispondere sono le seguenti: 

1) Con quale regista passeresti una serata insieme? E perché?
2) Ti danno la possibilità di rifare un film che a te (o a tutti) ha fatto cagare: quale scegli? 
3) La critica cinematografica è morta o è soltanto in coma?
4) Alla domanda "Qual è la più grande serie Tv mai fatta?" sei uno che risponde Breaking Bad senza aver mai visto una sola puntata de I Soprano?
5) Ti piacciono i dolci? 
6) Hai un sogno nel cassetto?
7) Qual è il tuo videogioco preferito? Se non giochi non mi offendo...
8) Cederesti mai il tuo blog a terze persone?
9) Ti stai rompendo le palle di rispondere?
10) La scena cinematografica preferita di sempre? 
11) La pagina più bella che tu abbia mai letto?

La premiazione è finita, andate in pace, Amen.