★★★★
Un paio d'anni dopo la Guerra Civile americana, una diligenza si dirige di gran passo verso Red Rock prima che una bufera le morda la coda. I passeggeri sono due: il temibile cacciatore di taglie John Ruth detto "Il Boia" (Kurt Russell) e la latitante Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) su cui pende una taglia di diecimila dollari. Sulla strada, seduto su un cumulo di cadaveri mezzi congelati, il maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), ex soldato dell'Unione divenuto cacciatore di taglie, chiede al cocchiere O. B. un passaggio per Red Rock. John Ruth, dapprima riluttante, accetta di farlo viaggiare con sé. Sulla strada incontreranno anche un certo Chris Mannix (Walton Goggins) che va dicendo di essere niente meno che il nuovo sceriffo di Red Rock. La strana compagnia riesce ad arrivare all'accogliente emporio di Minnie prima che la bufera diventi impossibile da affrontare, ma qui, invece di essere accolti dalla giunonica proprietaria e dal placido Sweet Dave, si ritrovano di fronte facce completamente sconosciute a partire da Bob (Demian Bichir), un messicano che si occupa dell'emporio mentre la proprietaria è in viaggio, passando per il raffinato Oswaldo Mobray (Tim Roth), il taciturno Joe Gage (Michael Madsen) e il vecchio generale sudista Sanford Smithers (Bruce Dern). Questi otto viaggiatori si ritroveranno a condividere lo stesso tetto, fuoco e cibo mentre imperversa una bufera fuori da una porta che va aperta a calci e chiusa fissando delle tavole di legno. Potrebbe essere un soggiorno tranquillo, seppur affollati, peccato che qualcuno degli otto non è chi dice di essere.
Una diligenza si avvicina lentamente a un crocifisso di legno striato di neve candida come se fosse sangue che ha perso il suo antico colore. Il messaggio che galoppa sulle note della colonna sonora di Ennio Morricone pare fluttuare nell'aria caricando il paesaggio innevato di un violento presagio: pietà l'è morta. E l'ottavo film di Quentin Tarantino ha inizio nel migliore dei modi possibili per poi calare lo spettatore in tre ore di pura tensione narrativa - una sorta di Dieci piccoli indiani e Le iene ambientati nel west - dove ogni frase è il verso di uno scatenato Rimbaud del cinema, dove l'uso della colonna sonora e la scelta dei brani continuano a rivelarsi da sempre tra i pregi del suo cinema, dove gli attori, che si muovono in un'unica scenografia, sprigionano quella particolare gioia ispirata da un maestro dell'arte cinematografica che non sbaglia un colpo neanche a pagarlo.
Perché Quentin Tarantino opera sugli attori come un orafo fa con delle pietre preziose da incastonare in una collana o un bracciale: li lavora smussando gli angoli spigolosi, livellando i piccoli difetti, lucidandoli e permettendoli di brillare di fronte la cinepresa dando loro piena libertà di improvvisazione. Kurt Russell ci ha preso così gusto nell'interpretare John Ruth che durante una scena ha distrutto una chitarra d'epoca di valore inestimabile facendo scatenare l'ira del museo che l'aveva in custodia. Il monologo che sfodera Samuel L. Jackson in The Hateful Eight è ai livelli di Ezechiele 25.17 di Pulp Fiction. Jennifer Jason Leigh compete con tutti gli attori maschi sul set grazie al ruolo di scaltra serpe maledetta il cui collo speri di vedere presto fare crac e che il regista tratta da criminale quale è (chi taccia Tarantino di misoginia ha il torsolo della mela al posto del cervello). Tim Roth scimmiotta volutamente Christoph Waltz (l'abbigliamento è quello dell'attore in Django Unchained) con raffinatezza inglese e intercalari francesi mentre Bruce Dern impartisce lezioni di recitazione stando seduto tutto il tempo su una poltrona.
Per Michael Madsen ho un debole. Ogni volta che viene inquadrato il suo volto dagli occhi affilati come rasoi attendo che dica "Quella donna merita la sua vendetta... e noi meritiamo di morire" invece, quando viene interpellato da John Ruth, dice di essere tornato in questi luoghi, dopo aver tirato su un po' di soldi, per passare un po' di tempo con la madre perché "passare il natale con la propria madre è una cosa meravigliosa". Come si fa a non amare Tarantino, dico io? E come si fa a non sentire un moto nel cuore quando Madsen pronuncia questa frase? Proprio quando, pronunciando la sentenza in Kill Bill, si sentono brividi lungo la colonna del buon senso. Perché per quanto The Hateful Eight sia un'opera matura, magistralmente tesa, autocitazionista, e fortemente politica; per quanto Django Unchained sia uno spettacolo esaltante e trascinante, Bastardi senza gloria una goduria infinita, Jackie Brown un capolavoro fin troppo sottovalutato (per non dire dimenticato), Le iene un cult intramontabile e Pulp Fiction una pietra miliare del cinema, per chi scrive Kill Bill resterà per sempre il punto più alto mai raggiunto dal genio di Quentin Tarantino. "No, bimba, in questo momento sono proprio io, all'apice del mio masochismo". Che ve lo dico a fare?
Il valore aggiunto a The Hateful Eight, però, è la curiosità morbosa che si prova nei confronti degli otto personaggi bloccati nell'emporio di Minnie: quante volte mi sono chiesto il numero di colli assicurati alla giustizia (e spezzati dalla stessa) da John "Il Boia" Ruth, la storia di guerra e disonore del maggiore Marquis Warren, la provenienza dell'accento di Oswaldo Mobray, come si è composta la banda dei Domargue, cosa si cela dietro lo sguardo malinconico e sofferto di Joe Gage, senza parlare delle circostanze che hanno portato alla nascita dell'emporio di Minnie. E poi l'abbraccio tra i compari poco prima della messa in scena non solo è quasi commovente, ma è fonte di immaginazione tutta nostra, offerta per noi spettatori. Se non si fosse capito vorrei un film su ognuno di loro.
E pensare che era una bellissima mattinata, per citare Fargo dei fratelli Coen. Minnie preparava il caffè e arrotolava sigarette mentre Sweet Dave giocava a scacchi contro un uomo anziano seduti di fronte al fuoco allegro del camino. Ci si poteva riparare dal freddo, bere qualcosa di caldo, fare quattro chiacchiere, fumare la pipa, consumare dei bastoncini alla menta mentre fuori dalla finestra il bianco della neve continuava a brillare come un'innocenza ritrovata prima che delle macchie di sangue indicassero la via da percorrere per mettere a tacere l'unico testimone della strage compiuta dalla banda Domargue. Michael Madsen esce dall'emporio appena dopo il massacro. Respira l'aria fredda del mattino, getta il bastoncino alla menta ancora intatto, e preso il fucile dalla diligenza segue la scia di sangue fino alla latrina sulle note di Now You're All Alone e lì l'arma ruggisce zittendo la musica.
Il finale è di una finezza politica sorprendente. Non voglio rivelarvi le identità dei personaggi che restano sulla scena per non guastarvi la visione di uno dei migliori film dell'anno, ma non è affatto un caso che restino proprio quei due degli otto odiosi a guardare il cadavere di quel dato personaggio. La morte non guarda in faccia né il Nord né il Sud, né il bianco né il nero, né una pericolosa ricercata né un qualsiasi sceriffo di una città del Wyoming. La morte, ancora più della giustizia, è uguale per tutti.
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