★★★½
1984. Il visionario e scorbutico Steve Jobs (Michael Fassbender) e il capo del marketing Joanna Hoffman (Kate Winslet) stanno affrontando un serio problema pochi minuti prima del lancio del Macintosh 128K: la voce della demo del computer non dice "ciao". Come se già questo non fosse un disguido epocale il Time, invece di aver messo Jobs in copertina, gli ha dedicato un articolo in cui si parla della sua presunta paternità con l'ex fidanzata la quale amareggiata dalle parole dell'uomo gli chiede di sostenerla economicamente. Steve Jobs affronterà in seguito due importantissimi lanci: uno nel 1988 e uno nel 1998. Sempre poco prima di salire sul palco la vita familiare e il rapporto con gli amici chiederanno a Steve Jobs una resa dei conti.
Il film diretto da Danny Boyle (Trainspotting, The Millionaire) e scritto da Aaron Sorkin (Moneyball, The Social Network) è logorroico, ma le parole non sono mai vuote; vi sono termini tecnici, ma non è mai noioso; è avvincente, montato con intelligenza e interpretato da due attori splendidi. Steve Jobs è un biopic che non commette il peccato capitale dell'autocelebrazione. Era facile scadere nel ritratto senza macchie e senza paura, riproporre in chiave melodrammatica lo "Stay hungry, stay foolish" con un quartetto d'archi in sottofondo, invece il risultato si è rivelato essere uno dei migliori biopic mai realizzati nonché il migliore possibile dedicato a un uomo che volente o nolente ha influenzato il nostro mondo.
L'incipit è fulminante. Da un computer che poco prima del lancio non dice "ciao" parte un fiume ininterrotto di dialoghi dove in pochissimi minuti i personaggi vengono scolpiti dalle loro stesse parole. Steve Jobs è un giovane uomo ambizioso, arrogante, intrattabile e vuole che tutto funzioni secondo le sue regole. Il suo capo del marketing, Joanna Hoffman, è il classico braccio destro che, con un'osservazione qui e una battuta di spirito là, non permette a Steve di esplodere come una supernova. Si viene a sapere, guardando Steve Jobs, che lui, di per sé, non ha creato nulla, l'ha "solo" immaginato. Non era un ingegnere, era più un designer. A un certo punto dice questa frase che riassume il suo lavoro: "I musicisti suonano gli strumenti. Il direttore suona l'orchestra". Probabilmente da solo non sapeva neanche cambiare una lampadina però è innegabile che i suoi prodotti, che hanno influito sulla nostra vita nel bene e nel male, siano esteticamente appetibili ed eleganti.
Il film è totalmente ambientato in teatri chiusi e ampi, sempre pochi minuti prima di un lancio importante (Macintosh, NeXT e Imac), non presenta alcun spazio aperto eccetto verso la fine quando finalmente lo spettatore prende una boccata d'aria. La luce non è quella calda del sole, ma è quella artificiale dei fari e dei lampadari; sopra la testa v'è il nero di un soffitto, e non l'azzurro disteso del cielo. Guardare Steve Jobs è come essere tenuti in ostaggio all'interno della mente di un genio. Un genio "fatto male" che nel 1998, mentre tenta di ricordare le prestazioni tecniche del suo nuovo prodotto, la sua mente è bombardata dal ricordo di sua figlia che nel 1984, seduta di fronte a un Macintosh, disegnava un quadro astratto, facendogli presagire le grandi potenzialità del mezzo.
Il film diretto da Danny Boyle (Trainspotting, The Millionaire) e scritto da Aaron Sorkin (Moneyball, The Social Network) è logorroico, ma le parole non sono mai vuote; vi sono termini tecnici, ma non è mai noioso; è avvincente, montato con intelligenza e interpretato da due attori splendidi. Steve Jobs è un biopic che non commette il peccato capitale dell'autocelebrazione. Era facile scadere nel ritratto senza macchie e senza paura, riproporre in chiave melodrammatica lo "Stay hungry, stay foolish" con un quartetto d'archi in sottofondo, invece il risultato si è rivelato essere uno dei migliori biopic mai realizzati nonché il migliore possibile dedicato a un uomo che volente o nolente ha influenzato il nostro mondo.
L'incipit è fulminante. Da un computer che poco prima del lancio non dice "ciao" parte un fiume ininterrotto di dialoghi dove in pochissimi minuti i personaggi vengono scolpiti dalle loro stesse parole. Steve Jobs è un giovane uomo ambizioso, arrogante, intrattabile e vuole che tutto funzioni secondo le sue regole. Il suo capo del marketing, Joanna Hoffman, è il classico braccio destro che, con un'osservazione qui e una battuta di spirito là, non permette a Steve di esplodere come una supernova. Si viene a sapere, guardando Steve Jobs, che lui, di per sé, non ha creato nulla, l'ha "solo" immaginato. Non era un ingegnere, era più un designer. A un certo punto dice questa frase che riassume il suo lavoro: "I musicisti suonano gli strumenti. Il direttore suona l'orchestra". Probabilmente da solo non sapeva neanche cambiare una lampadina però è innegabile che i suoi prodotti, che hanno influito sulla nostra vita nel bene e nel male, siano esteticamente appetibili ed eleganti.
Il film è totalmente ambientato in teatri chiusi e ampi, sempre pochi minuti prima di un lancio importante (Macintosh, NeXT e Imac), non presenta alcun spazio aperto eccetto verso la fine quando finalmente lo spettatore prende una boccata d'aria. La luce non è quella calda del sole, ma è quella artificiale dei fari e dei lampadari; sopra la testa v'è il nero di un soffitto, e non l'azzurro disteso del cielo. Guardare Steve Jobs è come essere tenuti in ostaggio all'interno della mente di un genio. Un genio "fatto male" che nel 1998, mentre tenta di ricordare le prestazioni tecniche del suo nuovo prodotto, la sua mente è bombardata dal ricordo di sua figlia che nel 1984, seduta di fronte a un Macintosh, disegnava un quadro astratto, facendogli presagire le grandi potenzialità del mezzo.
La regia di Danny Boyle non si vede, è totalmente a servizio della sceneggiatura perfetta di Aaron Sorkin, con i suoi dialoghi vivaci e incalzanti (il dialogo con flashback tra Jobs e l'ex CEO John Sculley è come un incontro di boxe), e lo spettatore si ritrova immerso in un film di due ore continuamente parlato dove però neanche uno scampolo d'immagine può essere inserito nel paniere della memoria. Michael Fassbender, per nulla somigliante a Steve Jobs, incarna invece con grande convinzione e intelligenza la sua mente geniale mentre Kate Winslet è semplicemente deliziosa.
Se Revenant - Redivivo è un film fatto principalmente di immagini, Steve Jobs è fatto di parole infatti rimarranno i dialoghi sopraffini, lo scambio di battute fulminee di quello che è forse il più grande sceneggiatore vivente, ma mi sarei aspettato un lavoro più acuto sulle immagini perché sono proprio loro a passare inosservate in una pellicola che avrebbe potuto essere, oltre che magnificamente scritta e ben confezionata, anche visivamente straordinaria.
Visto ieri. Di Jobs non mi fregava tanto e, alla fine del film, non posso dire di averlo capito fino in fondo. Ma il film l'ho trovato forsennato e quanto mi sono goduto questi fiumi di parole? Straordinario Fassbender. Ps. Vedo che la quarta stagione di Shameless ha faccio breccia come dicevo, eh? :)
RispondiEliminaA questo punto, dopo l'ennesimo che ne parla così bene, sono curiosissimo.
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