Il fenomeno Elena Ferrante ha stretto l'Italia in una morsa lettrice e oltreoceano c'è stata e c'è tuttora quella che hanno definito la Elena Ferrante's Fever. E mi trovo in difficoltà a parlarne con chi non ha mai letto neanche un incipit - ed è difficile che ci si fermi all'incipit, una volta iniziata è arduo smettere - neanche mezza pagina o una singola frase estrapolata da uno dei suoi libri, e ciò che mi intristisce sono coloro che si sono avvicinati alla Ferrante spinti non dagli elogi ricevuti per la sua prosa magnetica e la bellezza delle storie narrate, ma per l'aura di mistero che aleggia attorno alla figura della Ferrante persona di cui non si sa assolutamente nulla. Sarà donna? sarà uomo? sarà un collettivo di scrittori? sarà Goffredo Fofi? o Domenico Starnone? Perché scrive sotto pseudonimo e non compare mai in pubblico? Ognuno si faccia la propria idea, io stesso ce l'ho, ma focalizziamoci sul messaggio che la Ferrante manda a chiare lettere: che siano i libri a parlare al posto dell'autore. D'altronde è lo stesso messaggio di Cormac McCarthy, Thomas Pynchon e J. D. Salinger, i grandi invisibili della letteratura americana che con solo le loro opere si mostrano al pubblico per quello che sono: dei narratori. Geniali, per di più. Elena Ferrante è una scrittrice nel senso più nobile del termine. Una sopraffina narratrice di storie che vi avvinghiano il collo come un cappio di seta. Storia di chi fugge e di chi resta, il terzo libro della quadrilogia de L'amica geniale, mi è durato quanto una manciata di sabbia lasciata scorrere dalle dita dischiuse.
Storia di chi resta (o di chi torna) come Lila che fa il suo ritorno al rione assieme al nuovo compagno e al figlio Gennaro. Storia di chi fugge: Elena si trasferisce a Firenze dove si sposa con un giovane professore universitario dal cognome altisonante con cui avrà due figlie. Elena che per quanto abbia studiato, per quanto conosca intellettuali, per quanto si sforzi ad affermarsi come scrittrice tentando di scrivere un romanzo superiore al primo che le ha dato la fama, non riesce a togliersi di dosso l'olezzo del rione di Napoli con la cadenza del suo dialetto che scaturisce quando s'infervora, i modi da bambina che si sposano con quelli della sua amica geniale Lila, e le persone che popolando la sua memoria d'infanzia la tormentano e la artigliano verso il pozzo profondo dell'emancipazione fallace. I nomi dei personaggi femminili costantemente storpiati - Lila, Lenù, Gigliò, Dede - come se a storpiare il nome si riuscisse a tenerne a bada l'intelligenza e le capacità poste in difficoltà dagli uomini e da una società italiana degli anni '70 smossa dalle rivolte comuniste, lotte di classe e una incipiente rivoluzione culturale e il trovarsi di fronte all'effettiva differenza tra gli impegnati comizi politici tenuti da persone benestanti e lo stato di miseria in cui versa effettivamente il proletariato. Sono ormai distanti Elena e Lila. Un rapporto d'amicizia e odio tenuto insieme solo dal filo del telefono. A tratti Storia di chi fugge e di chi resta un è romanzo straziante: "Perché chi sono io se tu non sei brava? chi sono?" dice Lila ad Elena. Le rispondo io: un personaggio cartaceo che io pretendo abbia un corpo perché quando compare la pagina vibra. Una donna il cui "fascino era il più intollerabile, il fascino che asserve e spinge alla rovina". Un po' come i libri della Ferrante, che non ne vogliono sapere di andarsene da noi anche dopo averli riposti nuovamente sullo scaffale.
Denny B.
Denny B.
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