martedì 30 giugno 2015

Maggie - Contagious: epidemia mortale

★★

Nel Midwest un virus misterioso sta trasformando pian piano tutta la popolazione in zombie. Anche la famiglia Vogel, che vive in una isolata fattoria in campagna, deve fare i conti con questo male quando la figlia Maggie (Abigail Breslin) viene morsa da uno zombie. Il padre Wade (Arnold Schwarzenegger), molto legato alla figlia, le starà vicino e farà tutto il possibile per proteggerla fino alla fine sempre più imminente.  

Mi si era detto che Arnold Schwarzenegger in Maggie avrebbe dimostrato una dote recitativa che teneva sopita tra un grugnito e l'altro espressi in qualsivoglia pellicola abbia partecipato da gorilla pompato qual è. Mi si era detto che, incredibile ma vero, Arnold avrebbe sciolto in lacrime gli occhi degli spettatori più insensibili con la migliore interpretazione della sua carriera. E invece, MANCO PO' CA**O. Scusate il dialettismo, ma in mancanza del regista e sceneggiatore di questo film per le mani, mi limito a esprimere il mio disappunto con termini piuttosto coloriti. 

Diretto da Henry Hobson, regista di spot pubblicitari e sceneggiato da John Scott 3 (3 volte schifo, 3 volte John, 3 volte ho provato-a-fare-di-meglio-ma-questo-è-ciò-che-riesco-a-fare?) Maggie - stendiamo dieci chili di velo pietoso sulla traduzione italiana del titolo acchiappa-dindi ché se uno legge Maggie "non vado a vedere un film al femminile" e se invece legge Contagious - Epidemia mortale "figooo un film sugli zombie con Arnold che li decapita con un fucile a pompa a bordo di una moto", vero? - è un film drammatico, dove il cliché del virus che trasforma la gente in zombie è superfluo, inserito al fine di attrarre i produttori prima e il pubblico pagante dopo, che si abbandona al fuoco sempre acceso nei registi più ingenui della cosiddetta lacrima facile. 

Henry Hobson tenta di imboccare la strada di Terrence Malick con sequenze naturali in solitaria come quando Wade da fuoco al suo campo di grano ormai improduttivo o quando Maggie cammina contro il sole o va sull'altalena serena dimentica per un attimo del male incurabile che la sta trasformando lentamente in uno zombie. Mi aspettavo da un momento all'altro che le loro voci fuori campo sostituissero la pessima e invadente colonna sonora composta da due note in croce ripetute allo sfinimento. Ecco: se Terrence Malick avesse diretto Maggie ne sarebbe venuto fuori un film magnifico. 

Nonostante queste sequenze - meglio tentare di copiare Malick che Bay, no? - l'impianto registico è anonimo e non si amalgama con la sceneggiatura di John Scott 3 molto spesso ingenua: la terra non da più grano, mais e orzo, ma le margherite, fiore preferito della moglie defunta di Wade, crescono rigogliose in un fazzoletto di terra nel bosco accanto alla loro casa? l'amica di Maggie l'abbraccia e sta a stretto contatto con gli infetti come se la vicinanza a essi non fosse altamente sconsigliata dai medici? E gli altri due figli di Wade? Si vedono per due secondi e poi puff spariti. 

Un film brutto non è quello che fa arrabbiare il critico, ma è un film potenzialmente valido ma in atto deludente che "mi fa davvero girare gli ingranaggi". Arnold Schwarzenegger ci prova a calarsi nei panni di un attore piangente ma è come vedere un frigorifero che si scongela. Abigail Breslin, la star del bellissimo Little Miss Sunshine, è brava nel suo ruolo, e Joely Richardson svolge senza infamia il suo compito di personaggio di contorno quale Caroline, la nuova moglie di Wade. 

Maggie abbandona i personaggi a se stessi così come abbandona l'horror per il dramma più prevedibile e scontato. La scena più bella? quando Wade e Maggie ridono mangiando le carote immangiabili di Caroline. Tra loro quindi c'è un rapporto di complicità antecedente la tragica vicenda, perché non lo si vede allora? perché non si porta lo spettatore nei momenti felici vissuti assieme così da comprendere di più quelli che il film decide di far vedere? Forse perché John Scott 1 e John Scott 2 non erano d'accordo. 

domenica 21 giugno 2015

CHINA - INSIDE THE TRADITION: LANTERNE ROSSE (1991)


★★★★

Cina del Nord. 1920. Dopo la morte del padre la giovanissima Songlian (Gong Li) decide di sposare il facoltoso Chen Zuoqin, discendente di un'antica dinastia, che ha già ben tre mogli: Yuru (Jin Shuyuan), Zhuoyun (Cuifen Cao) e Meishan (Caifei He) tutte in attesa delle lanterne rosse appese davanti alla loro porta che stanno a significare che il padrone passerà la notte con loro e che potranno godere di alcuni privilegi tra i quali un piacevolissimo massaggio ai piedi. Ben presto Songlian si renderà conto che la vita della concubina è irta di pericoli, ripicche, invidie, segreti e morte. 

Songlian sta per diventare la quarta moglie del ricco Chen Zuogin, discendente di un'antica famiglia, e si reca a piedi nella sua enorme abitazione, con una piccola valigia, vestita semplicemente e con le trecce che le ricadono sulle spalle. Una innocente farfalla che entra nella bocca del leone scambiandola per un tratto di buio dove infine si crede ci sia nuovamente la luce del sole. Arrivata a destinazione verrà istruita dall'intendente sulle regole e tradizioni centenarie della famiglia Zuogin e le verranno presentate le altre tre mogli del padrone: Yuru è la prima signora, una donna anziana, silente, da anni non vede il marito se non durante il pranzo. Zhuoyun è la seconda signora, gentile, sempre sorridente, disponibile che accoglie Songlian proprio come fosse una sorella (le mogli tra loro si chiamano "Prima sorella", "Seconda sorella" e così via). 

E poi c'è Meishan, la terza signora, capricciosa, viziata, che arriva a disturbare la prima notte dopo le nozze di Songlian ordinando alla propria cameriera di chiamare il padrone, e che di solito canta di prima mattina arie liriche cinesi. Chi ha le lanterne rosse accese di fronte alla propria casa vuol dire che riceverà la visita del padrone e otterrà il massaggio ai piedi (essi sono molto importanti in una donna), che ben presto diventerà un'ossessione per Songlian, e il giorno successivo, a pranzo, potrà scegliere il menù a lei più gradito. Il padrone non viene mai inquadrato nitidamente in volto, bensì sempre da lontano, coperto una volta da una tenda o di schiena.  

Lanterne rosse mette in scena una guerra tra concubine il cui gorgo torbido di violenza, ripicche e inganni in cui cadrà Songlian sarà fatale. 
La regia di Zhang Yimou (che ha diretto quella meraviglia di Hero) è composta da inquadrature fisse che si ripetono dando un senso di claustrofobia e presentando un ambiente circoscritto (la dimora del padrone) dal quale non si può uscire. Case uguali arredate in maniera diversa a seconda della signora che le abita, uno spicchio di cielo ferito dai limiti ricurvi dei tetti (innevati durante l'inverno), il corridoio dove vengono appese le lanterne rosse all'arrivo del padrone, il pranzo, il suono prodotto dal massaggio ai piedi, la musica quasi assordante in certe scene, e il canto di Meishan accompagnato dalle sue delicate movenze femminili: tutti questi elementi non fanno altro che farci entrare nella vuota e ripetuta esistenza delle concubine che anelano il massaggio ai piedi e le lanterne accese più di ogni altra cosa perché oltre a risultare simboli di potere, sono anche le uniche attenzioni che riceveranno mai da un uomo, a meno che non rischino, come una delle tre, di farsi un amante.  

Questa breve recensione di Lanterne rosse, una delle pellicole orientali più sensuali e avvolgenti di sempre, partecipa a un day con gli occhi a mandorla, idea balenata in testa all'instancabile Alessandra del blog Director's Cult, di cui di seguito potete vedere la lista dei  partecipanti:

IL BOLLALMANACCO DI CINEMA 
DIRECTOR'S CULT 


THE OBSIDIAN MIRROR
NON C'E' PARAGONE
RECENSIONI RIBELLI 
WHITE RUSSIAN
MARY'S RED ROOM
MONTECRISTO 

giovedì 18 giugno 2015

22/11/'63 di Stephen King


Prima avevo delle certezze. Sapevo che una serie tv sui supereroi non avrebbe mai toccato le profonde corde della mia anima figuriamoci sfondarmi le cornee, poi è arrivata quella meraviglia di Daredevil con un Vincent D'Onofrio superlativo; sapevo che un film di genere action non mi avrebbe  mai tenuto con le chiappe incollate sulla poltrona del cinema senza sbadigliare ogni tre per due poi invece è arrivato George Miller con il suo Mad Max: Fury Road già nella lista dei tre migliori film dell'anno; e poi ero certo che qualsiasi libro di Stephen King l'avrei gettato dalla finestra dopo poche pagine con il nervoso per gli ennesimi soldi buttati, poi invece è arrivato 22/11'/63 a scardinare tale certezza e l'ha fatto conducendomi indietro nel tempo a visitare gli anni '60, quelli di Kennedy, J. Edgar Hoover, del fumo perpetuo, di Little Richard che si sgolava cantando Lucille, e de La donna che visse due volte e Psyco di Alfred Hitchcock

Jake Epping è un infelice professore d'inglese nella cittadina di Lisbon Falls (Maine), appena stato lasciato dalla moglie ex alcolista, che ha un problema: non riesce a piangere. Se non è grave non scomporsi per la morte dei suoceri lo è se non si versa una sola lacrima al funerale dei propri genitori. Forse è per questo che è stato lasciato. Fatto sta che per arrotondare comincia a fare lezioni seriali ed è proprio qui che incontra Harry Dunning, un bidello affetto da zoppia, che riversa in un tema assegnatogli l'episodio tragico di cui è stata vittima la sua famiglia nella notte di Halloween del 1958. Un giorno Al Templeton, gestore di un bar, affetto da un cancro ai polmoni, rivela a Jake un segreto incredibile: proprio nel retro del locale, dove c'è la dispensa, è presente un varco che se attraversato ti catapulta direttamente alle 11.58 del 9 settembre 1958. E Al, dopo aver convinto Jake a provare le sue parole onde evitare che lo prenda per matto, gli affida una missione importantissima: fermare Lee Harvey Oswald prima che conficchi una pallottola nella testa del presidente J. F. Kennedy. Jake, dapprima riluttante, accetta e viaggia nel passato per cambiare il futuro. Ma presto Jake capirà che il passato è inflessibile e non vuole essere cambiato.  

22/11'/63 è un viaggio nel tempo. Il romanzo di Stephen King, intendendolo proprio come un oggetto, è la "buca del coniglio" - definizione data da Al al varco spazio-temporale - nella quale finirete appena varcata la soglia della prima pagina. Per circa quindici giorni, come per incanto, mi sono ritrovato negli anni '59-'63 dove colonne di fumo azzurrognole lambivano i soffitti dei locali pubblici, dove si ballava il lindy-hop e il rock cominciava, timido, a sentirsi nei garage delle abitazioni le cui porte non venivano mai chiuse del tutto perché la fiducia nel prossimo non era ancora diventata uno spettro come negli anni duemila. 

Sono sicuro che merito dell'apprezzamento del libro da parte mia sia da imputare alla traduzione sopraffina di Wu Ming 1 lontana anni luce da quella dell'orrendo Revival, tanto per fare un esempio. 22/11'/63 è un romanzo sulle scelte, sul passato inflessibile, sul cosiddetto effetto farfalla, con rimandi al suo tanto acclamato It che faranno andare i fan in brode di giuggiole e personaggi - miracolo - ben caratterizzati e non più macchiette informe d'inchiostro, dove il tema fantascientifico del varco spaziotemporale e delle stringe lascia presto il posto a quella che è una delle storie d'amore più tenere e tenaci che abbia mai letto. Jacke e Sadie che ballano perché la danza è vita, che si vedono di nascosto in un motel fuori dagli occhi e le bocche pettegole a mangiare "una torta paradiso" (modo in cui chiamano il sesso), un uomo del futuro che nel passato trova l'amore, una casa in cui vivere e una donna per cui piangere calde lacrime. 

Siete veramente convinti che con Kennedy rieletto nel '64 l'America avrebbe evitato il bagno di sangue chiamato Vietnam? Non ci crederete, ma King risponde anche  a questo in pagine mosse dalla corrente dell'horror. E' come se tutti gli altri libri - belli o brutti fate voi, non ne voglio leggere altri - avessero limato il suo strumento di scrittura affinché potesse mettere su carta un libro così appassionante, malinconico e ipnotico che avrebbe fatto cambiare idea a chiunque lo considerasse alla stregua di una J. K. Rowling qualsiasi. Mi arrischio a dire che forse 22/11/'63 è l'unico libro di King che persino un accanito detrattore come il Sommo Harold Bloom leggerebbe senza infilzarlo con i suoi occhi di ghiaccio.  

lunedì 8 giugno 2015

Hungry Hearts (2014)


★★★½

Jude (Adam Driver) e Mina (Alba Rohrwacher) s'incontrano in un ristorante cinese di New York o, più precisamente, nel bagno del suddetto ristorante in cui rimangono chiusi dentro. I due s'innamorano, cominciano la loro convivenza in un piccolo appartamento e si sposano. La loro vita sembra viaggiare sul binario della felicità fino a quando Mina non resta incinta e si convince che il bambino avrà un potere speciale come le ha predetto una fattucchiera. Quando il piccolo viene al mondo lei lo alimenta solo con cibi vegetali e lo tiene lontana dall'inquinato mondo esterno convinta così di preservarne la purezza. Jude dapprima la asseconda, ma, rendendosi conto che suo figlio non cresce come dovrebbe, si rivolge a uno specialista che gli comunica che suo figlio rischia la denutrizione se non ingerisce un tot di proteine giornaliere. Avrà inizio una battaglia tra Mina e Jude per l'alimentazione del loro piccolo bambino.

Fischiato al Festival del Cinema di Venezia l'anno scorso, nonostante poi i due attori protagonisti abbiano vinto ben due Coppe Volpi per le loro interpretazioni, recensito negativamente dai nostri critici degni di un paese analfabeta, detestato dagli Vade-Retro-Rohrwacher, e ignorato (o mai visto, ma criticato lo stesso perché Fuck the Sistem) da coloro che "Saverio Costanzo figlio di Maurizio? ma quello è un raccomandato incapace", Hungry Hearts è, volente o nolente, il Gone Girl all'italiana che dai pori trasuda internazionalità. Un film inquietante, coinvolgente e maturo. 

Certe scelte di inquadratura - dall'alto, primissimi piani, ad angolo -, che ricordano molto il Roman Polanski di Rosemary's Baby, aumentano il senso di inquietudine e di angoscia, costantemente in crescendo, che vive questa coppia di sposi aventi divergenze nel campo dell'alimentazione. Lei, ossessionata dalla salute, dall'igiene e contraria a tutto ciò che è di provenienza animale, è, per farla breve, una vegana che costringe il suo bambino a non ingerire carne portandolo alla denutrizione e alla mancanza di crescita. "E' un pazza" dice a un certo punto la madre di Jude e quest'ultimo risponde "E' solo insolita". E voi da quale parte pendete? E' giusto che una madre vegana nutra suo figlio solo con pappette vegetali lasciandolo privo delle proteine necessarie al suo sviluppo? Ma Hungry Hearts non è solo critica agli OGM e il veganesimo che va tanto di moda, ma scava nel rapporto di coppia portando in superficie i lati oscuri dei due componenti senza la spettacolarità messa in scena dall'ottimo thriller di David Fincher

Mina non ha nessuno oltre a Jude. "Io sono la sola famiglia che ha" dice Jude a sua madre. Mina è una donna che si annulla per suo figlio. Si annulla anche sessualmente: il corpo è scarno, gli occhi non hanno più luce, e il rapporto con suo marito è una gabbia dentro un piccolissimo appartamento molto vicino a una cella il cui spazio più claustrofobico è, ironia della sorte, la serra sul tetto in cui coltiva senza usare diserbanti verdura sana priva di conservanti, dove per accedervi bisogna salire una stretta scala a pioli. Mina non ha la consapevolezza di Rosemary di essere incinta di un demone, perché è lei stessa un demone, pericolosa per se stessa e per gli altri. 

Il regista Saverio Costanzo non si limita a descrivere una vita ultrareale di un coppia dal loro primo incontro incredibile in un bagno maleodorante di un ristorante cinese al loro primo e unico figlio, ma, facendo sfociare Hungry Hearts nel golfo del genere thriller e horror, racconta l'ascesa così come la caduta di un amore con un occhio volutamente polanskiano, rendendo chiaro il titolo azzeccato: cuori affamati. Per quanto riempiamo il corpo di cibo, se il cuore è a digiuno, resteremo affamati come sciacalli nella notte. 

lunedì 1 giugno 2015

Il Racconto dei Racconti (2015)

★★★½

Tre fiabe compongono Il Racconto dei Racconti: nella prima una regina (Salma Hayek) desiderosa a tutti i costi di sentire la vita crescere in sé si affida nelle mani di un negromante che gli dice di mangiare il cuore di un drago marino cotto da una vergine così facendo rimarrà sicuramente incita. Nella seconda un re nano (Toby Jones) sembra provare più affetto per una pulce che per sua figlia ancora in cerca di un marito che, per l'occasione, indice un torneo il cui vincitore le verrà dato in sposa. Infine nella tera un re particolarmente dedito alla lussuria (Vincent Cassell) s'invaghisce della voce di quella che lui crede si tratti di una giovane e attraente fanciulla ma che nella realtà si tratta di due vecchie tintrici di pelli.

"Siamo sicuri che questo film sia di un italiano?" è la domanda che ricorre tra il pubblico uscente dalla sala di proiezione. Ebbene sì, il regista in questione, Matteo Garrone, dopo due splendidi affreschi umani e tragici quali Gomorra e Reality, con Il Racconto dei Racconti ha realizzato qualcosa di nuovo nel panorama cinematografico italiano, un azzardo coraggioso che l'ha ripagato della stima internazionale: una feroce fiaba oscura in costume in cui si susseguono draghi marini, arcani incantesimi, pulci giganti, orchi, pipistrelli, e solo dopo le vere creature demoniache: gli esseri umani. Nella sua ultima pellicola Garrone, prendendo in prestito 3 delle 50 fiabe de Lo Cunto de li Cunti di Giovanni Basile, raccolta in lingua napoletana scritta nel XVII secolo, ci presenta una galleria di personaggi grotteschi sempre in bilico fra cocenti desideri di miglioramento e preservazione dello stato attuale della situazione. 

Le donne in questo film sono feroci, caparbie ed egoiste. C'è chi commette un omicidio per liberarsi da un matrimonio obbligato, chi sacrifica la propria esistenza per amore del proprio figlio, chi inganna la sorella con una bugia dai risvolti estremi. Invece gli uomini spesso sono deboli e inadeguati (il re, uno straordinario Toby Jones, che è più amorevole con la pulce che non con la figlia ancora da maritare), vittime sacrificali per uno scopo più grande (il marito della regina interpretata da una Salma Hayek per una volta espressiva, quasi magnetica, che per ottenere il cuore del drago marino al fine di far sì che lei rimanga incinta, muore non ricevendo il benché minimo segno d'approvazione da sua moglie), o uomini completamente preda delle passioni (il re lussurioso che ha il volto di Vincent Cassell) o ingenui come il ragazzo futuro sovrano che, avendo un amico gemello, vorrebbe governare a turno. 

L'onestà è una delle prime frecce nella faretra del critico: Il Racconto dei Racconti, per quanto la messa in scena sia sontuosa, gli interpreti straordinari, la colonna sonora adeguata di Alexandre Desplat, non è esente da piccoli difetti trai i quali una situazione poco chiara che lascia in sospeso una delle tre storie di cui è composto il film - legate tra loro soltanto con un gioco di rimandi cromatici se no completamente a sé stanti - mentre il finale che può lasciare interdetti, dopo un'attenta riflessione, sprigiona la sua morale che si riallaccia alla frase del negromante "L'equilibrio del mondo deve essere mantenuto"; infatti il funambolo che cammina sulla fune infuocata sembra porre fine alla storia di una delle due vecchie che in quel momento non si trova nel posto assegnatele.

Nonostante la mancanza di un'ultima parola della formula magica che rendesse possibile un'amalgama tra le tre storie che s'incrociano solo nel finale, Il Racconto dei Racconti di Matteo Garrone è un'opera d'arte potente e tremenda, un'effettiva dichiarazione d'amore verso l'arte e il cinema, e, alcune scene, momenti toccanti, scorci mozzafiato, lasciano, come foglie sparse dalla Sibilla, il nostro cuore martoriato da una glaciale consapevolezza: siamo sempre noi i mostri delle fiabe.