giovedì 25 febbraio 2016

Deadpool (2016)

★★½

Wade Wilson (Ryan Reynolds), ex soldato delle forze speciali, dopo essere stato congedato con disonore, per tirare a campare ha deciso di fare il mercenario. Un giorno, nel losco bar che frequenta, incontra Vanessa (Morena Bacarin) con la quale ha un'intensa vita sessuale che sfocia nell'innamoramento più totale. Purtroppo però a Wade viene diagnosticato un cancro terminale a vari organi del corpo e dopo aver incontrato un misterioso "reclutatore" in grado, a suo dire, di farlo completamente guarire dal cancro, si reca nella struttura per sottoporsi a una serie di interventi. Peccato che da quest'ultimi ne uscirà orrendamente sfigurato e con poteri solo un attimo prima inimmaginabili. 

Dissacrante, sarcastico, sboccato, volgare, violento e irriverente. Questo è Deadpool. Un supereroe atipico che non si è abituati a vedere al cinema. Non salva donzelle in pericolo, ma solo ed esclusivamente la sua. Non dà la caccia ai cattivi per rendere il mondo un luogo migliore, ma va alla ricerca del sadico che gli ha trasformato la faccia in un misto tra un'ananas e un kiwi affettati affinché gliela rimetta a posto. Non si sposta in città né con un'auto super-attrezzata né tramite ragnatele né volando come un fringuello, ma prende semplicemente il taxi. Non lascia che la sua storia venga narrata da una roca voce fuori campo, ma è lui stesso che ne narra le vicende rivolgendosi allo spettatore come se fosse dentro il salotto di casa seduto sul divano accanto a lui. 

Deadpool ha un discreto ritmo, delle simpatiche trovate, una sceneggiatura che strizza l'occhio a quella manica di nerd là fuori pronti a criticare qualsiasi cinecomics perché "anghegghe, è però il costume è di un rosso diverso rispetto al fumetto", oltre a sfoderare qualche battuta ardita ("Di solito alle ragazze non lo dico, ma tu non ingoiare") o autoironica ""Credi che Ryan Reynolds sia arrivato dov'è arrivato grazie alle sue doti attoriali?"), ma ci si ritrova comunque ad assistere all'ennesima fiera della CGI con personaggi secondari così sciapi che non li faresti entrare nemmeno in un villaggio vacanze figuriamoci inserirli all'interno di un film. 

Se si fosse deciso di lavorare con più artigianalità, con l'uso di stuntman professionisti, un utilizzo del sangue e delle contusioni più realistico, e se la regia (Tim Miller ci prova, ma gniafà) avesse assecondato questo spirito con maggior ispirazione, Deadpool avrebbe indicato una piacevole svolta per i film Marvel. Così invece è un film su un supereroe anticonvenzionale - piacevole, per carità - che si rivolge direttamente allo spettatore sperando che non si accorga dei suoi difetti. 

martedì 23 febbraio 2016

The Hateful Eight (2015)

★★★★

Un paio d'anni dopo la Guerra Civile americana, una diligenza si dirige di gran passo verso Red Rock prima che una bufera le morda la coda. I passeggeri sono due: il temibile cacciatore di taglie John Ruth detto "Il Boia" (Kurt Russell) e la latitante Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) su cui pende una taglia di diecimila dollari. Sulla strada, seduto su un cumulo di cadaveri mezzi congelati, il maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), ex soldato dell'Unione divenuto cacciatore di taglie, chiede al cocchiere O. B. un passaggio per Red Rock. John Ruth, dapprima riluttante, accetta di farlo viaggiare con sé. Sulla strada incontreranno anche un certo Chris Mannix (Walton Goggins) che va dicendo di essere niente meno che il nuovo sceriffo di Red Rock. La strana compagnia riesce ad arrivare all'accogliente emporio di Minnie prima che la bufera diventi impossibile da affrontare, ma qui, invece di essere accolti dalla giunonica proprietaria e dal placido Sweet Dave, si ritrovano di fronte facce completamente sconosciute a partire da Bob (Demian Bichir), un messicano che si occupa dell'emporio mentre la proprietaria è in viaggio, passando per il raffinato Oswaldo Mobray (Tim Roth), il taciturno Joe Gage (Michael Madsen) e il vecchio generale sudista Sanford Smithers (Bruce Dern). Questi otto viaggiatori si ritroveranno a condividere lo stesso tetto, fuoco e cibo mentre imperversa una bufera fuori da una porta che va aperta a calci e chiusa fissando delle tavole di legno. Potrebbe essere un soggiorno tranquillo, seppur affollati, peccato che qualcuno degli otto non è chi dice di essere. 

Una diligenza si avvicina lentamente a un crocifisso di legno striato di neve candida come  se fosse sangue che ha perso il suo antico colore. Il messaggio che galoppa sulle note della colonna sonora di Ennio Morricone pare fluttuare nell'aria caricando il paesaggio innevato di un violento presagio: pietà l'è morta. E l'ottavo film di Quentin Tarantino ha inizio nel migliore dei modi possibili per poi calare lo spettatore in tre ore di pura tensione narrativa - una sorta di Dieci piccoli indiani e Le iene ambientati nel west - dove ogni frase è il verso di uno scatenato Rimbaud del cinema, dove l'uso della colonna sonora e la scelta dei brani continuano a rivelarsi da sempre tra i pregi del suo cinema, dove gli attori, che si muovono in un'unica scenografia, sprigionano quella particolare gioia ispirata da un maestro dell'arte cinematografica che non sbaglia un colpo neanche a pagarlo. 

Perché Quentin Tarantino opera sugli attori come un orafo fa con delle pietre preziose da incastonare in una collana o un bracciale: li lavora smussando gli angoli spigolosi, livellando i piccoli difetti, lucidandoli e permettendoli di brillare di fronte la cinepresa dando loro piena libertà di improvvisazione. Kurt Russell ci ha preso così gusto nell'interpretare John Ruth che durante una scena ha distrutto una chitarra d'epoca di valore inestimabile facendo scatenare l'ira del museo che l'aveva in custodia. Il monologo che sfodera Samuel L. Jackson in The Hateful Eight è ai livelli di Ezechiele 25.17 di Pulp FictionJennifer Jason Leigh compete con tutti gli attori maschi sul set grazie al ruolo di scaltra serpe maledetta il cui collo speri di vedere presto fare crac e che il regista tratta da criminale quale è (chi taccia Tarantino di misoginia ha il torsolo della mela al posto del cervello). Tim Roth scimmiotta volutamente Christoph Waltz (l'abbigliamento è quello dell'attore in Django Unchained) con raffinatezza inglese e intercalari francesi mentre Bruce Dern impartisce lezioni di recitazione stando seduto tutto il tempo su una poltrona. 

Per Michael Madsen ho un debole. Ogni volta che viene inquadrato il suo volto dagli occhi affilati come rasoi attendo che dica "Quella donna merita la sua vendetta... e noi meritiamo di morire" invece, quando viene interpellato da John Ruth, dice di essere tornato in questi luoghi, dopo aver tirato su un po' di soldi, per passare un po' di tempo con la madre perché "passare il natale con la propria madre è una cosa meravigliosa". Come si fa a non amare Tarantino, dico io? E come si fa a non sentire un moto nel cuore quando Madsen pronuncia questa frase? Proprio quando, pronunciando la sentenza in Kill Bill, si sentono brividi lungo la colonna del buon senso. Perché per quanto The Hateful Eight sia un'opera matura, magistralmente tesa, autocitazionista, e fortemente politica; per quanto Django Unchained sia uno spettacolo esaltante e trascinante, Bastardi senza gloria una goduria infinita, Jackie Brown un capolavoro fin troppo sottovalutato (per non dire dimenticato), Le iene un cult intramontabile e Pulp Fiction una pietra miliare del cinema, per chi scrive Kill Bill resterà per sempre il punto più alto mai raggiunto dal genio di Quentin Tarantino. "No, bimba, in questo momento sono proprio io, all'apice del mio masochismo". Che ve lo dico a fare?

Il valore aggiunto a The Hateful Eight, però, è la curiosità morbosa che si prova nei confronti degli otto personaggi bloccati nell'emporio di Minnie: quante volte mi sono chiesto il numero di colli assicurati alla giustizia (e spezzati dalla stessa) da John "Il Boia" Ruth, la storia di guerra e disonore del maggiore Marquis Warren, la provenienza dell'accento di Oswaldo Mobray, come si è composta la banda dei Domargue, cosa si cela dietro lo sguardo malinconico e sofferto di Joe Gage, senza parlare delle circostanze che hanno portato alla nascita dell'emporio di Minnie. E poi l'abbraccio tra i compari poco prima della messa in scena non solo è quasi commovente, ma è fonte di immaginazione tutta nostra, offerta per noi spettatori. Se non si fosse capito vorrei un film su ognuno di loro. 

E pensare che era una bellissima mattinata, per citare Fargo dei fratelli Coen. Minnie preparava il caffè e arrotolava sigarette mentre Sweet Dave giocava a scacchi contro un uomo anziano seduti di fronte al fuoco allegro del camino. Ci si poteva riparare dal freddo, bere qualcosa di caldo, fare quattro chiacchiere, fumare la pipa, consumare dei bastoncini alla menta mentre fuori dalla finestra il bianco della neve continuava a brillare come un'innocenza ritrovata prima che delle macchie di sangue indicassero la via da percorrere per mettere a tacere l'unico testimone della strage compiuta dalla banda Domargue. Michael Madsen esce dall'emporio appena dopo il massacro. Respira l'aria fredda del mattino, getta il bastoncino alla menta ancora intatto, e preso il fucile dalla diligenza segue la scia di sangue fino alla latrina sulle note di Now You're All Alone e lì l'arma ruggisce zittendo la musica. 

Il finale è di una finezza politica sorprendente. Non voglio rivelarvi le identità dei personaggi che restano sulla scena per non guastarvi la visione di uno dei migliori film dell'anno, ma non è affatto un caso che restino proprio quei due degli otto odiosi a guardare il cadavere di quel dato personaggio. La morte non guarda in faccia né il Nord né il Sud, né il bianco né il nero, né una pericolosa ricercata né un qualsiasi sceriffo di una città del Wyoming. La morte, ancora più della giustizia, è uguale per tutti. 

mercoledì 10 febbraio 2016

Jane the Virgin - Stagione 1

★★★

Ai tempi delle medie una delle azioni che compivo con maggior partecipazione oltre a corteggiare baldracche, regalare decimi alla Playstation e mangiare dolci (questo lo faccio ancora) era guardare le soap opera; soprattutto quelle tedesche. In estate Canale 5 propinava sempre una nuova soap opera e fu così che i miei occhi non ancora abituati al caro e buon cinema si sorbirono Tempesta d'amore (tre stagioni e ancora continua a essere prodotta), Cuori tra le nuvole (fortunatamente solo una stagione), My Life (come dimenticare la nonna con l'alzheimer? mi dicono che arriverà a 2000 puntate) e Alisa segui il tuo cuore (pregammo, io e la mia famiglia, che mandassero in onda anche la seconda, ma invano). Potrebbe far gridare allo scandalo, questo mio passato discutibile, lo so, ma chi non ha degli scheletri nell'armadio? 

Vi voglio confessare una cosa: ciò che più mi piaceva delle soap opera non erano né i personaggi (banali, prevedibili e stancanti) né le situazioni (ripetitive) né i luoghi (dopo aver visto le sopracitate soap tedesche ormai so riconoscere le città in cui sono state girate con un colpo d'occhio), ma era l'atmosfera di condivisione che si veniva a creare in famiglia. Io, mia madre e i miei nonni davanti allo schermo del televisore febbricitanti in attesa di sentir partire la sigla e vedere se la protagonista era riuscita a confessare il suo amore al tizio di turno o se il cattivo era riuscito a combinarne un'altra delle sue. 

Jane Gloriana Villanueva (l'espressiva e simpatica Gina Rodriguez) è una dolce ragazza di ventitré anni che ama due cose più di ogni altra cosa al mondo: i toast al formaggio e le telenovelas. In quest'ordine preciso. Ha un ragazzo, Michael (Brett Dier), da circa due anni; studia insegnamento e il suo sogno nel cassetto è quello di diventare una scrittrice. Vive con la sua esuberante madre Xiomara (Andrea Navedo), che ha avuto Jane a soli sedici anni, e la cattolicissima nonna Alba (Ivonne Coll) che fin dal tredicesimo compleanno ha messo in guardia Jane circa i rischi del sesso prematrimoniale. Da allora Jane non ha mai fatto sesso. Fino a quando non viene inseminata artificialmente, per errore, con lo sperma di Rafael Solano (Justin Baldoni), figlio del proprietario di una lussuosa catena alberghiera e fratello della dottoressa che l'ha inseminata.

Guardare Jane the Virgin quindi è come ritornare a guardare le soap opere con una lieve, ma sostanziale, differenza: mentre la si guarda il cervello è acceso. La serie Tv, la cui seconda stagione è attualmente trasmessa da The CW, ironizza sulle telenovelas sfruttando tutti i meccanismi tipici come colpi di scena, personaggi che ritornano, segreti di famiglia, incontri significativi, incidenti e morti improvvise. Una voce narrante onnipresente (il simpatico Massimo Lopez) svela e anticipa i pensieri della protagonista Jane Gloriana Villanueva  commentando spesso sarcasticamente le varie situazioni che si vengono a creare. Inoltre, spesso, ci si avvale di scritte che appaiono sullo schermo per ricapitolare fatti o legami tra i personaggi. 

Pur con tutti i suoi limiti e alcune puntate rompebolas Jane the Virgin è una visione leggera, divertente e disimpegnata, che non si prende mai troppo sul serio, ed è ottima tra una visione e l'altra di Shameless, Narcos o quant'altro. Rimarrete ammirati dalle numerose espressioni buffe di Gina Rodriguez e riderete di fronte al narcisismo innocente di Rogelio de la Vega (assoluto protagonista della seguitissima telenovela Le passioni di Santos). Infine l'idioma di nonna Alba (può piacere come irritare) è quel tocco di autenticità iberica che non guasta affatto. 

venerdì 5 febbraio 2016

Mr. Robot - Stagione 1

★★½

Mr. Robot è quella che in gergo si definisce una supercazzola. Dopo che il tuo corpo si riempie di aspettative gonfiate da aggettivi entusiasti e recensioni al settimo cielo manco fosse una di quelle botti di legno in cui riposa il vino finisci per affrontare la prima puntata con un'ubriacatura notevole, che ti spinge a cantare Fly Me to the Moon pur sapendo di essere stonati come Giancarlo Magalli sotto la doccia, e da dove te ne esci mediamente soddisfatto con quella faccia da "E va beh, è la première, il bello deve ancora venire" che puntata dopo puntata acquista l'espressione tipica della delusione. 

Elliot Alderson (Rami Malek) di giorno è un ingegnere informatico che lavora alla Allsafe come esperto di sicurezza informatica mentre di notte è un hacker/stalker che penetra nelle vite private delle persone spesso comportandosi come una sorta di giustiziere incappucciato. Il suo essere sociofobico, depresso e dipendente dalla morfina non gli rende facile relazionarsi con le persone e instaurare rapporti d'amicizia duraturi. Un giorno incontra il misterioso Mr. Robot (Christian Stater), un anarchico rivoluzionario, che lo invita a unirsi a un gruppo di hacker definito Fsociety che si pone il compito di liberare le persone dai debiti con le banche e mettere con la schiena contro il muro coloro che celati da tutti governano il mondo. 

La recitazione vocale di Rami Malek è notevole. La sua gamma di espressioni vocali è numerosa, ma a Mr. Robot manca solidità e un focus ben preciso. Si preoccupa di architettare il colpo di scena che in parte si intuisce dopo quattro puntate tralasciando i personaggi secondari che si trascinano in identità poco definite. La missione principale di questo gruppo di hacker definito Fsociety appare sempre fumoso e poco coinvolgente. Ci sono elementi che la distinguono dalle ciofece in circolazione come il gusto per l'inquadratura e l'utilizzo della colonna sonora, ma nel complesso il risultato è una serie Tv discreta che lascia più innervositi che deliziati. 

E poi alé, nel finale di stagione si tira fuori dal cilindro il pippone alla Tyler Durden d'altronde Mr. Robot è l'erede spirituale di Fight Club. Questo show pra ha una possibilità da non sprecare assolutamente: quella di delineare, nella seconda stagione prevista per quest'anno, una nuova società, un nuovo modo di vivere l'esistenza. Basta co' ste pippe sui media, le multinazionali, la pubblicità, le banche. Basta. Andiamo oltre. Immaginiamo finalmente un mondo libero dall'egemonia bancaria, attento allo stato di salute del pianeta Terra, esseri umani liberi di impiegare il proprio tempo come meglio credono senza dover lasciare l'epidermide del culo sulla sedia dell'ufficio. Un utopia, d'accordo, ma proviamo a immaginarla, crediamo in questo sogno, riponiamo anche solo una scampolo di fiducia in Sam Esmail. Lo potremmo vedere realizzato. Almeno in una seria Tv. 

martedì 2 febbraio 2016

Shameless - Stagione 4

★★★★

Bellissima. Emozionante. Una bomba a orologeria che scoppia lasciandoti il corpo trafitto da schegge di sentimenti. E con un finale di ampio respiro. Insomma, è con estremo e sorprendente piacere che comunico alla blogosfera che la terza di Shameless ha ceduto lo scettro di miglior stagione alla quarta che, con la sua serie di cadute e ricadute, crescita dei suoi protagonisti, amore, perdono, prese di responsabilità, e un'atmosfera plumbea composta da quei nuvoloni promettenti pioggia che goccia dopo goccia lavano il sangue dalle ferite e fortificano quella forza incredibile che deriva dal legame di sangue, rende ufficialmente la famiglia Gallagher occupante abusiva del mio cuore. 

Fin dalla première ci si accorge che i toni goliardici delle precedenti tre stagioni stanno perdendo la loro intensità a favore di un timbro più maturo in grado di cantare le gesta dei Gallagher tutti.  Troviamo Debbie e Carl nel pieno dell'adolescenza, la prima frequenta ragazzine promiscue e attende il segno che indicherà il passaggio da bambina a donna, il secondo indaga il proprio corpo con metodi fai-da-te; Lip, studiando al college, comprende che è molto più difficile di quanto pensasse e che studiare solo mezz'ora prima di un esame non è proprio il metodo giusto per ottenere dei risultati soddisfacenti; Fiona, che assapora per la prima volta il gusto concreto di un lavoro sicuro, si ritrova a governare una casa molto meno casinista del solito non riuscendo a intavolare un dialogo con dei Debbie e Carl silenziosi, spesso arroganti, e accusatori; in tutto questo di Ian neanche l'ombra mentre di Frank resta un fegato che piano piano sta marcendo portandolo alla morte. 

La quarta stagione di Shameless è emotivamente straordinaria. Sfodera scene e situazioni intense e variegate come un quadro impressionista. Carl, Debbie e Liam che abbracciano Fiona dopo essere ritornata a casa dal carcere (a seguito della violazione della condizionale); Mickey che confessa davanti a suo padre, durante il battesimo di suo figlio, di essere omosessuale sotto gli occhi di un Ian tanto sorpreso quanto fiero; Lip che abbracciando Fiona e dicendole "Tu sei molto più di una sorella maggiore. Ci sei sempre stata e l'abbiamo dato per scontato. Io l'ho fatto e mi dispiace" manda direttamente a quel paese i spettatori peggiori di questo show ovvero coloro che hanno dato le spalle a Fiona al primo episodio drammatico in cui è stata coinvolta; il primo bacio di Carl e lo sboccio di Debbie; e quel dannato Frank, con tutto il corpo dentro la fossa per via del fegato marcescente che se ne esce con la notizia di avere una figlia maggiore di nome Samantha, che se la cava dopo aver mostrato, seppur in una condizione mentale confusa, un minimo di pentimento per il suo ruolo di padre mai rispettato e onorato. 

I Gallagher si evolvono percorrendo l'ardua strada della crescita. Cadono, più volte, ma si rialzano sempre, più forti di prima. Questa famiglia non la abbatte il mondo in cui (soprav)vive benché meno Dio. L'essere superiore che da lassù guarda in giù e vede un uomo con una bottiglia di whiskey in mano sbraitare di essere vivo, ancora vivo dopo tutto ciò che ha passato. Dio vede Frank Gallagher e si rende conto di aver perso non una battaglia, ma l'intera guerra.