sabato 29 dicembre 2012

Thomas S. Eliot

Il nero pittore della poesia

 

 

Presso quella finestra della sera, da cui
                                              Il suo occhio accurato tiene Woburn Square
                                                         Sotto un continuo giudizio…

 

Vedo quest’uomo gotico e cortese
                                                Mentre ammansisce Apollo con la penna.

 
                                                        (…) nella stanza di Eliot le visioni
                                                           Imputridiscono, sibilando.

 

(…) quel viso severo, imperiale,
                                                        Ha scandagliato la nostra vergogna,
                                                                E senza tradire nemmeno
                                                           Una minima fitta di dolore
                                                             Ha visto il mostro malessere
                                                          Ricominciare da capo –
                                                      Uomo cortese, a lungo sofferente.

 

(…) come le immense negazioni scorrono
                                                          A depredare ogni cosa all’esterno
                                                Di quella sua finestra, egli leva la mano
                                                          Per scrivere con turbini di vento
                                               Affermazioni che nel proprio nome
                                                Possano sottomettere le grandi negazioni.

 

……
 
Questi sono frammenti della poesia Verses for the 60th Birthday of Thomas Stearns Eliot di George Barker.
Eliot è uno dei più grandi poeti della letteratura mondiale, che a differenza di Whitman, è presente nei libri di scuola, con qualche frammento della sua opera più importante che è La terra desolata,  per due motivi: perché ha vinto il Premio Nobel per la letteratura nel 1948 e per la sua influenza poetica che ha regnato fino alla metà del ‘900. Tralasciamo il suo acceso antisemitismo, i suoi drammi in versi, poco leggibili e rappresentabili, e i suoi saggi di critica letteraria, e concentriamoci sul suo genio.
Eliot nei suoi momenti migliori raggiunge la statura di poeti come Hart Crane, Walt Whitman e Wallace Stevens. La sua forza sta nell’ironia e nell’autoironia, negli ultimi battiti del lirismo romantico, nelle sue intense allucinazioni, nel monologo drammatico – il cui inventore fu Robert Browning.
È risaputo che il suo maestro fu Ezra Pound, che rivide, aggiunse e tagliò molto del materiale poetico che sarebbe dovuto diventare La terra desolata; ma l’influenza che Whitman ha avuto su Eliot, pochi l’hanno riconosciuta e pochi stentono ancora a riconoscerla. Lo stesso Eliot fu evasivo a questo riguardo. Lui si definiva discendente di Baudelaire e Dante. Pose al di sopra di Whitman il poeta minore francese Jules Laforgue, affermazione che avrebbe stupito lui per primo, che aveva tradotto Whitman e ne aveva grande stima. Eliot (sostenette) che il proprio verso libero derivava da quello di Laforgue (ignorando il debito di questi verso Whitman). Eliot insistette: <<Non ho letto Whitman se non in una fase successiva della vita, e per farlo ho dovuto superare un’avversione alla sua forma oltre che a gran parte della sua materia>>.
Ciò è totalmente falso perché Whitman è il vero padre poetico della Terra desolata.
La terra desolata è il capolavoro di Eliot pubblicato nell’ottobre del 1922 su <<The Criterion>>, la rivista letteraria fondata dallo stesso Eliot e la prima edizione inglese in volume apparve per i tipi dell’artigianale Hogarth Press di Leonard e Virginia Woolf nel settembre del 1923. Riscosse un enorme successo di critica e di pubblico, soprattutto negli ambienti accademici, dove i suoi discepoli la lessero come un inno di salvezza.
La critica letteraria fu quasi del tutto unanime a considerarla un capolavoro, poiché era una vera e propria critica alla società e al mondo dell’epoca; e in questo caso la critica non ha capito un bel niente, come succede molte volte d’altronde. Lo stesso Eliot, durante una conferenza all’Università di Harvard, disse:
<<Vari critici mi hanno fatto l’onore di interpretare il poemetto nei termini di una critica al mondo contemporaneo, l’hanno considerato davvero come un importante pezzo di critica sociale. Per me fu solo il sollievo da una personale e del tutto insignificante lagnanza contro la vita; è proprio un pezzo di lamentela ritmica>>.
Ritmo è la parola giusta poichéLa terra desolata ha una musicalità che ha affascinato molti poeti tra cui Hart Crane e continua ad affascinare lettori e scrittori. È un’opera che a prima vista pare un guazzabuglio di versi inediti dell’autore e altri editi da altri così messi a caso, ma a una più attenta lettura si coglie un filo labile che lega tutta l’opera dalla parola iniziale “Aprile” a “Shantih” , la parola che chiude il poemetto.
L’incipit è famoso:

 

Aprile è il mese più crudele, generando
                                                     Lillà dalla terra morta, mischiando
                                                          Memoria e desiderio, eccitando
                                                  Spente radici con pioggia di primavera.
                                                        L’inverno ci tenne caldi, coprendo
                                                   La terra di neve smemorata, nutrendo
                                                        Una piccola vita con tuberi secchi.

 

I lillà sono un riferimento a Whitman e alla sua elegia Quando i lillà, può essere poca cosa, ma andando avanti nella lettura i riferimenti aumentano.

 

Città irreale ,
                                            Sotto la nebbia bruna di un’alba invernale (…)
                                 Lì vidi uno che conoscevo e lo fermai gridando: <<Stetson!
                                                    Tu che eri con me sulle navi a Milazzo!
                                    Quel cadavere che piantasti l’anno scorso nel tuo giardino
                                              Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?
                                             O l’improvviso gelo ha turbato il suo letto? (…)

 

Quel cadavere è Whitman. Eliot lo considerava come poeta non proprio alla stregua di un cadavere, ma non gli piaceva per niente, e non lo avrebbe mai inserito nella lista dei più grandi poeti mai esistiti, preferiva invece Laforgue o Pound – “il miglior fabbro”.

Whitman ossessionava Eliot, ma riuscì con i suo genio a costruirsi una poetica che definirei “musicale”; i versi di Eliot sono delle note su uno spartito imprevedibile, perché le sue poesie gettano addosso al lettore la notte con tutto il buio che rende poco visibile quello che però continua ad esistere. Ti offre un nuovo modo di pensare gli oggetti, con la tecnica del correlativo oggettivo – tecnica su cui Montale fonderà le poesie di Ossi di seppia. Ruba gli oggetti del mondo e li dà una nuova collocazione nelle sue poesie.

 

La tenda del fiume è rotta: le ultime dita delle foglie
S'avvinghiano e affondano dentro l’umida sponda. Il vento
Attraversa la terra bruna, inudito. Le ninfe sono partite.
Dolce Tamigi, scorri lieve, finché non finisca il mio canto.
Il fiume non porta bottiglie vuote, carte da sandwich,
Fazzoletti di seta, scatole di cartone, cicche di sigarette
O altre testimonianze di notti estive. Le ninfe sono partite.
E i loro amici, gli sfaccendati eredi di direttori di banca della City,
Partiti, non hanno lasciato indirizzo.
Presso le acque del Lemano mi sedetti e piansi...
Dolce Tamigi, scorri lieve, finché non finisca il mio canto.
Dolce Tamigi, scorri lieve, perché non parlo né forte né a lungo.

               

Semplici oggetti diventano testimonianze, in questo caso, delle notti estive. Le ninfe si riferiscono sia alle figure del mito che alle prostitute moderne che sono sparite col finire dell’estate.

Qui l’io c’è, ma è un io che assume molte maschere, che non si rivela nemmeno alla fine, contrariamente a quanto dicono alcuni critici.

In questi versi la presenza di Whitman si fa più tangibile:


Dolce Tamigi, scorri lieve, finché non finisca il mio canto. (…)

Presso le acque del Lemano mi sedetti e piansi...
Dolce Tamigi, scorri lieve, finché non finisca il mio canto.
Dolce Tamigi, scorri lieve, perché non parlo né forte né a lungo. (…)

                                                                                                         

Questi versi potrebbe benissimo averli scritti il bardo americano, guardando da una terrazza il Tamigi sotto di lui, e mi ritornano in mente alcuni versi della poesia Sul ferry di Brooklyn:

 

Marea montante sotto di me! ti guardo faccia a faccia!
Nuvole a occidente — sole lassù ancora alto per mezz’ora — anche voi guardo faccia
                                                                             a faccia.

Folle di uomini e di donne vestite dei soliti abiti, come strane mi sembrate!
E le migliaia che attraversano il fiume sui traghetti, tornando a casa, mi sembrano

più strane di quanto immaginiate.
E voi che passerete, di qui a molti anni, da riva a riva, siete per me e per le mie
                                meditazioni, ben più importanti di quanto possiate immaginare. (…)
                                      Continua a scorrere, fiume! alzati e abbassati con le maree!

 

E vorrei precisare che sottolineando l’influenza di Whitman su Eliot non voglio assolutamente affermare implicitamente che Eliot abbia rubato qualcosa al poeta americano o che abbia copiato e basta, ma l’influenza poetica che un poeta ha su un altro non è negativa, anzi, se non ci fosse stato Whitman, poeti quali Wallace Stevens o John Ashbery non avrebbero scritto i capolavori che li rendono dei geni. In fondo l’influenza è poetica è una specie di competizione: si compete con i poeti precedenti.

Ignorare l’influenza di Whitman su Eliot è un errore che dovrebbe essere corretto.

Nell’ultima parte della La terra desolata - Ciò che disse il tuono – l’individuo avvia una ricerca di purificazione attraverso una terra desolata, dove si può intuire la presenza di “molti” che stanno morendo:

 

Dopo la luce delle torce rossa su facce sudate
Dopo il gelido silenzio nei giardini
Dopo l'agonia in luoghi pietrosi
Le grida e i pianti
Prigione e palazzo ed eco
Di tuono di primavera su montagne lontane

Colui che era vivo è ora morto
                                                  Noi che eravamo vivi stiamo ora morendo
                                                                Con un po’ di pazienza

 

Proviamo ora a leggere la sezione 15 di Quando i lillà fiorivano l’ultima volta nel prato davanti alla casa di Walt Whitman:

 

E vidi obliqui schierarsi gli eserciti,
                                           Vidi come in sogni silenti selve di guerrieri vessilli,
                                        Volare nel fumo delle battaglie, da proiettili forati li vidi,
                                             Sventolati qua e là per il fumo, laceri e insanguinati,
                                      Ridotti a pochi brandelli penzolanti dall’asta (e sempre in
                                                                           silenzio,)
                                                        E l’asta tutta scheggiata e infranta.

 

Vidi i cadaveri dopo la battaglia, a miriadi,
                                                   E gli scheletri bianchi dei giovani, li vidi,
                                               E le reliquie di tutti i soldati uccisi in battaglia,
                                                 Ma vidi che non erano come pensavo,
                                            Erano in pace perfetta, non soffrivano più,
                                           I vivi ch’eran rimasti soffrivano, le madri soffrivano,
                                         La moglie, il bimbo, il camerata cogitabondo soffriva,
                                                E gli eserciti ch’eran rimasti soffrivano.

                                                             

Tutti e due i brani sembrano il resoconto della stessa battaglia però visti da due sguardi differenti

E andando avanti nella lettura del poemetto di Eliot, quest’ultimo pare fondersi con l’elegia di Whitman.

 

Se ci fosse acqua
E non roccia
Se vi fosse roccia
E anche acqua
E acqua
Una fonte
Una pozza tra la roccia
Se  ci fosse il suono dell’acqua soltanto
Non la cicala
Ed erba secca che canta
Ma suono d'acqua su una roccia
Dove il tordo eremita canta nei pini
Drip drop drip drop drop drop drop
Ma non c'è acqua

 

Chi legge per la prima volta questi versi si chiederà che cosa sia il tordo eremita e prontamente leggerà la nota dello stesso Eliot: <<Questo è il Turdus aonalaschkae pallasii, il tordo eremita che ho udito nella provincia del Quebec. Chapman dice (Handbook of Birds of Eastern North America) che “si trova in prevalenza in folte foreste e in macchie appartate […]. Le sue note non sono rimarchevoli per varietà o volume, ma per la purezza e la dolcezza del tono e per la squisita modulazione che non ha l’uguale”. Il suo “canto d’acqua stillante” è giustamente rinomato>>.

Una nota che non può far altro che far sorridere, perché Eliot ha un grande senso dell’ironia e con tale nota riesce a mascherare la vera provenienza della figura del tordo eremita ovvero l’elegia sopra citata:

 
                                                    Nei remoti meandri della palude,
                                                    Un timido uccello gorgheggia il suo canto.


                                                            Solitario il tordo,
                                                    L’eremita che vive in disparte, e che fugge le case,
                                                    Canta a se stesso un canto.

 
                                                           Canto di gola che sanguina,
                                                   Canto di vita che sgorga dalla morte (perché ben so, caro
                                                                             fratello,
                                                   Che se tu non potessi cantare certamente morresti.)

 

Ma continuando la lettura del poemetto vi sono sette versi di un’allusività a Whitman così intensa che lascerà confuso il lettore più esperto:

 

Chi è il terzo che ti cammina sempre accanto?
Quando conto, ci siamo soltanto tu e io insieme,
Ma quando guardo avanti alla strada bianca
C'è sempre un altro che ti cammina accanto
Scivolando ravvolto in un mantello bruno, incappucciato
Non so se uomo o donna
Ma chi è che ti sta all'altro fianco?

 

Evitiamo di leggere la nota di Eliot. Questa figura misteriosa può essere il Cristo risorto, ma anche il <<pensiero di morte>> o la <<conoscenza di morte>> di Whitman, o le due nozioni fuse insieme.

La terra desolata assomiglia sempre di più ad un’elegia al genio del poeta. Un genio che è capace di fondere assieme immagini tratte dal Dracula di Bram Stoker e dal Marianna o Maud di Tennyson e darci questa meraviglia:

 

Una donna tirò tesi i suoi lunghi capelli neri
E arpeggiò musica di bisbigli su quelle corde
E pipistrelli con facce di bambini nella luce viola
Fischiarono e batterono le ali
E strisciarono a testa in giù lungo un muro annerito
E rovesciate nell'aria c'erano torri

Risuonanti campane rievocatrici, che segnavano le ore
E voci cantanti dal fondo di vuote cisterne e di pozzi esauriti.

 

L’opera di Eliot si conclude con un ritorno all’io mascherato da Re Pescatore:

 

Io sedetti sulla riva

A pescare, con l’arida pianura dietro di me
Riuscirò almeno a mettere ordine nelle mie terre?
Il London Bridge cade giù cade giù cade giù
Poi s'ascose nel foco che gli affina
Quando fiam uti chelidon
O rondine rondine




Le Prince d'Aquitaine à la tour abolie
Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine
Be’ allora vi sistemo io. Hieronymo è pazzo di nuovo.
Datta. Dayadhvam. Damyata.
                                                Shantih shantih shantih

 

Mi piace poter credere che il terzo verso possa essere una metafora per “riuscirò a mettere a posto nelle mie poesie?” perché Eliot solo verso la fine della sua vita ammetterà il suo debito nei confronti di Whitman, e solo dopo la sua morte si è potuto leggere la sua produzione con un occhio differente, non più diluito dall’influenza “minore” di Pound, ma letta con una lente d’ingrandimento diversa, come un cammino verso il suo vero padre poetico che è Walt Whitman.
La lettura di Eliot mi è stata consigliata dal mio professore di scienze sociali in seconda superiore. Comprai al Salone del libro di Torino di quell’anno La terra desolata di Eliot. Arrivato a casa, misi il libro sullo scaffale e mi dedicai alla lettura di altro. Alcuni giorni dopo aprii il libro e cominciai a leggere: non ci capii niente; eppure quest’opera la consideravano una pietra miliare della poesia moderna. Arrivato in quinta superiore riaprii il libro, mi misi d’impegno, e rimasi impegnato per un paio d’ore nella lettura di questo poemetto meraviglioso. Lo tenni mesi sul mio comodino credendo che potesse in qualche modo ispirarmi e così fece, ma più che ispirarmi, mi ossessionò; ripetevo in continuazione l’incipit: oscuro, triste, terribilmente vero, vicino a me; descriveva perfettamente una mia situazione. Così continuai a leggere Eliot e non smetto ancora adesso di farlo seppur il tempo a disposizione è quello che è: poco.

Denny B.

venerdì 21 dicembre 2012

Walt Whitman

La forza della poesia
 
Nel profondo Sud il sole d’autunno sta passando
come Walt Whitman in cammino su una riva rossastra:
intona e canta le cose che sono parte di lui,
i mondi che furono e saranno, morte e giorno.
Nulla è definitivo, intona. Nessuno vedrà la fine.
La sua barba è di fuoco. Il suo bastone è una fiamma
sprizzante.
 
Questi versi meravigliosi sono di Wallace Stevens, che ci ha regalato il più esauriente schizzo del poeta che andrò a presentare.
Walt Whitman è un poeta snobbato dai nostri libri di letteratura scolastici, infatti, aprendo un libro di qualsivoglia edizione il suo nome non compare. Compaiono nomi quali Capuana, Tozzi, Alvaro, Silone, che non li ha mai sentiti nominare nessuno; e qui non voglio sminuirli, possono avere il loro perché, ma credo che un libro di letteratura che si rispetti debba almeno – e ripeto, almeno – nominare Whitman. Non dico mettere in un libro di letteratura l’intero Canto di me stesso, ma una sezione di questo splendido canto o una sua poesia breve, sì.
Ignorato dai libri di scuola, come se non bastasse, viene sminuito dai circoli di critici letterari che lo considerano minore, solo perché è un poeta “omosessuale” – e che io preferisco considerarlo semplicemente un poeta, e se devo accompagnare questo nome ad un aggettivo, scelgo quello di umano. Perché è l’ultimo umanista apparso sulla faccia della terra. Amava tutti e la sua poesia abbraccia il mondo intero. Perché il suo genio sta anche in questo: amava le persone, cantava il mondo e tutto ciò che faceva parte di lui. Molti storceranno il naso a sentire la parola genio accanto al nome di Whitman, ma lo vogliano o no, lui lo è, anche se altri non lo riconoscono.
Whitman non è un poeta facile ed è forse questa una delle ragioni per cui non viene studiato nelle scuole, ma facile non è sempre sinonimo di bellezza o di forza, perché un poeta può essere facile da leggere, ma non comunicare nulla, invece Whitman è un poeta difficile, simbolico, a volte evasivo, ma quello che ti dona è la semplicità. Quando si leggono i suoi versi, magari ad alta voce, si sente la vita pulsare prepotentemente nelle vene, l’anima vorrebbe uscire dal corpo e unirsi a quella del poeta, si vorrebbe vagare nei boschi e stupirsi alla vista di un albero, ascoltare rapiti ogni canto d’uccello e contemplare  muti le foglie d’erba.
E si chiama così l’unica opera di Whitman: Foglie d’erba. Un libro di poesie pubblicato per la prima volta nel 1855 e l’ultima edizione, l’ottava, è del 1892.
Le poesie che più di altre confermano il suo genio sono: Canto di me stesso, I dormienti, Sul ferry di Brooklyn, le due elegie dei Relitti marini: Dalla culla che dondola incessante e Già rifluendo col mare e infine l’elegia Quando i lillà fiorivano l’ultima volta nel prato davanti alla casa.
Prenderò in esame il Canto di me stesso, non tutto ovviamente, per motivi sia di (tempo che di resistenza mentale e fisica).
I poeti hanno cantato battaglie, amori; hanno scritto versi sulla natura, sulle grazie di una donna, sull’infinito; Wordsworth fu il primo poeta a rivoluzionare la poesia con l’introduzione dell’io e Whitman il primo a scrivere una poesia su se stesso.
La intitolò Canto di me stesso. Un componimento composto di ben 52 paragrafi che è la forse la più importante poesia della letteratura americana, e una delle più straordinarie opere della letteratura mondiale. L’inizio è poderoso e nuovo:
 
Canto me stesso, e celebro me stesso,

E ciò che assumo voi dovete assumere

Perché ogni atomo che mi appartiene, appartiene

   anche a voi.

 
Quale poeta si sarebbe messo a scrivere questi versi? Nessuno, nemmeno in brutta, nemmeno con litri di alcol in corpo; avevano un amore non corrisposto o una gran fede nel cuore, su cui scrivere una poesia, ma Whitman scrisse su se stesso, perché non aveva nient’altro che se stesso; Whitman è stato ispiratore di se stesso.
Una poesia dal tema semplice, ma solo apparentemente, perché questo poeta ha una cartografia psichica complessa composta da: “me stesso” o “Walt Whitman”, “la mia anima” e “il mio io” o “il mio vero io”.
Il “me stesso” è “Walt Whitman, un cosmo, di Manhattan il figlio turbolento, carnale, sensuale, che mangia, che beve e procrea”(citando il primo verso della sezione 24), ovvero la sua personalità, un americano, uno dei duri, più una maschera che lui stesso decideva di indossare, ma Whitman non è solo un poeta duro, forte, indistruttibile, un terminator dei nostri tempi, ma è il poeta oscuro, solitario e vagabondo della notte, del mare, della madre e della morte.
“Il mio io” è il suo genio e ne fa una delicata descrizione nella sezione 4:
 
Separato da ciò che attira e trascina sta quello che io
   sono,

Se ne sta divertito, compiacente, compassionevole,
   inattivo, unitario,

Guarda dall'alto, è eretto, o appoggia un braccio a un
   impalpabile sicuro sostegno,

Con la testa piegata di Iato, curioso di ciò che verrà
   dopo,

Dentro e fuori del gioco, osservandolo e
   meravigliandosi.



 
È il suo genio che si meraviglia di quello che Whitman sta creando, ed è una descrizione delicata, che può dividere le persone tra quelli che pensano che “il mio io” sia di sesso femminile oppure di sesso maschile. Però in Già rifluendo col mare questi si getta contro il Walt rozzo deridendo le sue ambizioni poetiche:
 
Deluso, respinto, piegato contro la terra,
Oppresso da me stesso, che ho osato aprir bocca,
Conscio ora che tra tante vane parole, i cui echi ricadono
su me, non ho mai avuto la minima idea di chi o che
cosa io sia,
Ma che di fronte a tutti i miei arroganti poemi il mio
vero Io intatto si aderge, inespresso, tuttora inattinto,
E, ritiratosi lungi, mi irride con beffarde congratulazioni
e inchini,
con scrosci di lontane risate ironiche per ogni parola
che ho scritta,
in silenzio indicando questi canti, e poi la sabbia che
m’è sotto i piedi.
 
Quello che colpisce è questo verso: “Il mio io vero Io intatto si aderge, inespresso, tuttora inattinto”;  “il mio vero io” è il genio di Whitman, che non è ancora stato espresso ed è come se fosse una boccetta piena d’inchiostro che non ha ancora visto l’ombra della penna del poeta, la stessa che lo raccoglierà interamente per il suo ultimo grande capolavoro che è Quando i lillà fiorivano l’ultima volta nel prato davanti alla casa, l’elegia dedicata non solo al defunto presidente Lincoln, ma allo stesso genio di Walt Whitman.
Per quanto riguarda “la mia anima” non voglio identificarla per forza con il carattere, è a lui sconosciuta e azzarderei a considerarla non come l’anima che siamo abituati a pensare, immortale, che è dentro di noi, ma all’anima del mondo, avvicinarci ad una visone animistica del mondo dove tutto è anima; e quindi l’anima di Whitman è l’anima che sta dentro a tutte le cose, e non un’anima unicamente individuale. Quando la interpella o la cita soltanto, fa riferimento al mondo, a quello che gli sta attorno. I versi d’apertura della sezione 5 sono i più difficili della sua intera poetica:
 
Io credo in te anima mia, e l'altro che io sono non

   deve umiliarsi

Davanti a te ne tu davanti a lui.


 
Whitman ha paura che quest’anima non si concili con il suo genio. Letta in un altro modo: ha paura che il suo genio non vada d’accordo con il mondo.
Però i versi d’apertura della sezione 25 sono la testimonianza di una conciliazione avvenuta:
 
 
Abbagliante, tremenda, con che rapidità m’ucciderebbe
un’alba,
Se io non potessi ora e sempre irraggiare un’alba da me.
 
Noi pure sorgiamo, abbaglianti e tremendi come il sole,
E fondiamo la nostra aurora, o anima mia, nella calma
Frescura dell’alba.
 
Nessun poeta ha mai avuto una fiducia in se stesso così forte e consapevole da fargli scrivere “ora e sempre”. In questo pugno di versi l’io, la persona Walt Whitman, si unisce con l’anima, e insieme costituiscono un Noi che commuove. Il poeta scavalca il limite dell’inconoscibilità dell’anima e l’abbraccia.
Whitman nella poesia Io canto l’individuo scriveva:
 
Io canto l’individuo, la singola persona,
Al tempo stesso canto la Democrazia, la massa.
 
Quell’io lo conosciamo come “me stesso”, un americano, un cosmo, ma ripeto che è molto di più. Nella poesia breve Come Adamo di prima mattina:
 
Come Adamo di prima mattina
Usciva all’aperto ristorato dal sonno,
Guardate dove passo, ascoltate la voce, avvicinatevi,
Toccatemi, posate la palma della mano sul mio corpo
mentre passo,
Non abbiate paura del mio corpo.
                                          
Whitman è al tempo stesso Adamo e Cristo e per credergli dobbiamo toccare il suo corpo resuscitato.
Nel paragrafo 38 del Canto di me stesso Whitman ha una crisi, dovuta al peso insostenibile della sovraidentificazione con tutti i mendicanti avvenuta alla fine del paragrafo 37 (I mendicanti s’incarnano in me, io m’incarno in essi), e protesta contro il suo tentativo di espiare per tutti: “Basta! basta! basta! / In qualche modo sono rimasto intontito. State al largo! / Datemi un po’ di tempo per la mia povera testa presa a scapezzoni, per assopimenti, sogni stupori…”. Si riprenderà subito dopo, pur rimanendo un’amarezza di fondo e la sofferenza dell’io come Cristo americano: “Che abbia potuto contemplare con sguardo staccato la mia crocifissione, la mia incoronazione di spine!). Quando si alza, quando “le catene scivolano da me” abbiamo uno dei passi più particolari della sua produzione:
 
Avanzo armato d’un potere supremo, anch’io parte d’un
comune corteo interminabile,
Procediamo verso l’entroterra e lungo la costa, oltrepassiamo
tutte le frontiere,
I nostri rapidi ordini si propagano per la terra universa,
E i fiori che portiamo sui cappelli sono la fioritura di
migliaia di anni.
 
Discepoli, io vi saluto! fatevi avanti!
 
Continuate a prendere appunti, continuate a interrogare.
 
Negli ultimi versi sublimi diCanto di me stesso riusciamo a identificare Whitman con Gesù:
 
Mi lascio in eredità alla terra, per rinascere dall’erba che
Amo,
Se ancora mi vuoi, cercami sotto la suola delle scarpe.
 
A malapena saprai chi io sia, che cosa significhi,
Ma tuttavia t’infonderò salute,
Purificherò, rafforzerò il tuo sangue.
 
Se subito non mi trovi non scoraggiarti,
Se non mi trovi in un posto cercami in un altro,
In qualche posto mi sono fermato e t’attendo.
 
Whitman è il più geniale tra gli scrittori americani, più del sopravvalutato Hemingway, più del suo rivale Faulkner, più della Dickinson. Se ci si vanta conoscitori della letteratura senza aver letto il Canto di me stesso, si è soltanto dei poveri ignoranti.
Io non ho scelto Whitman, è lui che ha scelto me, un giorno, caldo e triste, nella libreria in cui vado ormai da anni; era nell’angolo destro dello scaffale dedicato alla poesia, lo presi tra le mani, guardai l’uomo ritratto sulla copertina: sicuro, leggermente ammiccante, con un cappello sulla testa inclinata verso la sua sinistra, quasi come se volesse dire: “Ti va di venire con me?”Lo sfogliai e me lo portai a casa (ovviamente pagando); in auto cominciai a leggere e rimasi stupito e stupido. Lessi due poesie brevi A te e Tu lettore e capii che quel libro era per me e per me solo.
Denny B.