venerdì 21 dicembre 2012

Walt Whitman

La forza della poesia
 
Nel profondo Sud il sole d’autunno sta passando
come Walt Whitman in cammino su una riva rossastra:
intona e canta le cose che sono parte di lui,
i mondi che furono e saranno, morte e giorno.
Nulla è definitivo, intona. Nessuno vedrà la fine.
La sua barba è di fuoco. Il suo bastone è una fiamma
sprizzante.
 
Questi versi meravigliosi sono di Wallace Stevens, che ci ha regalato il più esauriente schizzo del poeta che andrò a presentare.
Walt Whitman è un poeta snobbato dai nostri libri di letteratura scolastici, infatti, aprendo un libro di qualsivoglia edizione il suo nome non compare. Compaiono nomi quali Capuana, Tozzi, Alvaro, Silone, che non li ha mai sentiti nominare nessuno; e qui non voglio sminuirli, possono avere il loro perché, ma credo che un libro di letteratura che si rispetti debba almeno – e ripeto, almeno – nominare Whitman. Non dico mettere in un libro di letteratura l’intero Canto di me stesso, ma una sezione di questo splendido canto o una sua poesia breve, sì.
Ignorato dai libri di scuola, come se non bastasse, viene sminuito dai circoli di critici letterari che lo considerano minore, solo perché è un poeta “omosessuale” – e che io preferisco considerarlo semplicemente un poeta, e se devo accompagnare questo nome ad un aggettivo, scelgo quello di umano. Perché è l’ultimo umanista apparso sulla faccia della terra. Amava tutti e la sua poesia abbraccia il mondo intero. Perché il suo genio sta anche in questo: amava le persone, cantava il mondo e tutto ciò che faceva parte di lui. Molti storceranno il naso a sentire la parola genio accanto al nome di Whitman, ma lo vogliano o no, lui lo è, anche se altri non lo riconoscono.
Whitman non è un poeta facile ed è forse questa una delle ragioni per cui non viene studiato nelle scuole, ma facile non è sempre sinonimo di bellezza o di forza, perché un poeta può essere facile da leggere, ma non comunicare nulla, invece Whitman è un poeta difficile, simbolico, a volte evasivo, ma quello che ti dona è la semplicità. Quando si leggono i suoi versi, magari ad alta voce, si sente la vita pulsare prepotentemente nelle vene, l’anima vorrebbe uscire dal corpo e unirsi a quella del poeta, si vorrebbe vagare nei boschi e stupirsi alla vista di un albero, ascoltare rapiti ogni canto d’uccello e contemplare  muti le foglie d’erba.
E si chiama così l’unica opera di Whitman: Foglie d’erba. Un libro di poesie pubblicato per la prima volta nel 1855 e l’ultima edizione, l’ottava, è del 1892.
Le poesie che più di altre confermano il suo genio sono: Canto di me stesso, I dormienti, Sul ferry di Brooklyn, le due elegie dei Relitti marini: Dalla culla che dondola incessante e Già rifluendo col mare e infine l’elegia Quando i lillà fiorivano l’ultima volta nel prato davanti alla casa.
Prenderò in esame il Canto di me stesso, non tutto ovviamente, per motivi sia di (tempo che di resistenza mentale e fisica).
I poeti hanno cantato battaglie, amori; hanno scritto versi sulla natura, sulle grazie di una donna, sull’infinito; Wordsworth fu il primo poeta a rivoluzionare la poesia con l’introduzione dell’io e Whitman il primo a scrivere una poesia su se stesso.
La intitolò Canto di me stesso. Un componimento composto di ben 52 paragrafi che è la forse la più importante poesia della letteratura americana, e una delle più straordinarie opere della letteratura mondiale. L’inizio è poderoso e nuovo:
 
Canto me stesso, e celebro me stesso,

E ciò che assumo voi dovete assumere

Perché ogni atomo che mi appartiene, appartiene

   anche a voi.

 
Quale poeta si sarebbe messo a scrivere questi versi? Nessuno, nemmeno in brutta, nemmeno con litri di alcol in corpo; avevano un amore non corrisposto o una gran fede nel cuore, su cui scrivere una poesia, ma Whitman scrisse su se stesso, perché non aveva nient’altro che se stesso; Whitman è stato ispiratore di se stesso.
Una poesia dal tema semplice, ma solo apparentemente, perché questo poeta ha una cartografia psichica complessa composta da: “me stesso” o “Walt Whitman”, “la mia anima” e “il mio io” o “il mio vero io”.
Il “me stesso” è “Walt Whitman, un cosmo, di Manhattan il figlio turbolento, carnale, sensuale, che mangia, che beve e procrea”(citando il primo verso della sezione 24), ovvero la sua personalità, un americano, uno dei duri, più una maschera che lui stesso decideva di indossare, ma Whitman non è solo un poeta duro, forte, indistruttibile, un terminator dei nostri tempi, ma è il poeta oscuro, solitario e vagabondo della notte, del mare, della madre e della morte.
“Il mio io” è il suo genio e ne fa una delicata descrizione nella sezione 4:
 
Separato da ciò che attira e trascina sta quello che io
   sono,

Se ne sta divertito, compiacente, compassionevole,
   inattivo, unitario,

Guarda dall'alto, è eretto, o appoggia un braccio a un
   impalpabile sicuro sostegno,

Con la testa piegata di Iato, curioso di ciò che verrà
   dopo,

Dentro e fuori del gioco, osservandolo e
   meravigliandosi.



 
È il suo genio che si meraviglia di quello che Whitman sta creando, ed è una descrizione delicata, che può dividere le persone tra quelli che pensano che “il mio io” sia di sesso femminile oppure di sesso maschile. Però in Già rifluendo col mare questi si getta contro il Walt rozzo deridendo le sue ambizioni poetiche:
 
Deluso, respinto, piegato contro la terra,
Oppresso da me stesso, che ho osato aprir bocca,
Conscio ora che tra tante vane parole, i cui echi ricadono
su me, non ho mai avuto la minima idea di chi o che
cosa io sia,
Ma che di fronte a tutti i miei arroganti poemi il mio
vero Io intatto si aderge, inespresso, tuttora inattinto,
E, ritiratosi lungi, mi irride con beffarde congratulazioni
e inchini,
con scrosci di lontane risate ironiche per ogni parola
che ho scritta,
in silenzio indicando questi canti, e poi la sabbia che
m’è sotto i piedi.
 
Quello che colpisce è questo verso: “Il mio io vero Io intatto si aderge, inespresso, tuttora inattinto”;  “il mio vero io” è il genio di Whitman, che non è ancora stato espresso ed è come se fosse una boccetta piena d’inchiostro che non ha ancora visto l’ombra della penna del poeta, la stessa che lo raccoglierà interamente per il suo ultimo grande capolavoro che è Quando i lillà fiorivano l’ultima volta nel prato davanti alla casa, l’elegia dedicata non solo al defunto presidente Lincoln, ma allo stesso genio di Walt Whitman.
Per quanto riguarda “la mia anima” non voglio identificarla per forza con il carattere, è a lui sconosciuta e azzarderei a considerarla non come l’anima che siamo abituati a pensare, immortale, che è dentro di noi, ma all’anima del mondo, avvicinarci ad una visone animistica del mondo dove tutto è anima; e quindi l’anima di Whitman è l’anima che sta dentro a tutte le cose, e non un’anima unicamente individuale. Quando la interpella o la cita soltanto, fa riferimento al mondo, a quello che gli sta attorno. I versi d’apertura della sezione 5 sono i più difficili della sua intera poetica:
 
Io credo in te anima mia, e l'altro che io sono non

   deve umiliarsi

Davanti a te ne tu davanti a lui.


 
Whitman ha paura che quest’anima non si concili con il suo genio. Letta in un altro modo: ha paura che il suo genio non vada d’accordo con il mondo.
Però i versi d’apertura della sezione 25 sono la testimonianza di una conciliazione avvenuta:
 
 
Abbagliante, tremenda, con che rapidità m’ucciderebbe
un’alba,
Se io non potessi ora e sempre irraggiare un’alba da me.
 
Noi pure sorgiamo, abbaglianti e tremendi come il sole,
E fondiamo la nostra aurora, o anima mia, nella calma
Frescura dell’alba.
 
Nessun poeta ha mai avuto una fiducia in se stesso così forte e consapevole da fargli scrivere “ora e sempre”. In questo pugno di versi l’io, la persona Walt Whitman, si unisce con l’anima, e insieme costituiscono un Noi che commuove. Il poeta scavalca il limite dell’inconoscibilità dell’anima e l’abbraccia.
Whitman nella poesia Io canto l’individuo scriveva:
 
Io canto l’individuo, la singola persona,
Al tempo stesso canto la Democrazia, la massa.
 
Quell’io lo conosciamo come “me stesso”, un americano, un cosmo, ma ripeto che è molto di più. Nella poesia breve Come Adamo di prima mattina:
 
Come Adamo di prima mattina
Usciva all’aperto ristorato dal sonno,
Guardate dove passo, ascoltate la voce, avvicinatevi,
Toccatemi, posate la palma della mano sul mio corpo
mentre passo,
Non abbiate paura del mio corpo.
                                          
Whitman è al tempo stesso Adamo e Cristo e per credergli dobbiamo toccare il suo corpo resuscitato.
Nel paragrafo 38 del Canto di me stesso Whitman ha una crisi, dovuta al peso insostenibile della sovraidentificazione con tutti i mendicanti avvenuta alla fine del paragrafo 37 (I mendicanti s’incarnano in me, io m’incarno in essi), e protesta contro il suo tentativo di espiare per tutti: “Basta! basta! basta! / In qualche modo sono rimasto intontito. State al largo! / Datemi un po’ di tempo per la mia povera testa presa a scapezzoni, per assopimenti, sogni stupori…”. Si riprenderà subito dopo, pur rimanendo un’amarezza di fondo e la sofferenza dell’io come Cristo americano: “Che abbia potuto contemplare con sguardo staccato la mia crocifissione, la mia incoronazione di spine!). Quando si alza, quando “le catene scivolano da me” abbiamo uno dei passi più particolari della sua produzione:
 
Avanzo armato d’un potere supremo, anch’io parte d’un
comune corteo interminabile,
Procediamo verso l’entroterra e lungo la costa, oltrepassiamo
tutte le frontiere,
I nostri rapidi ordini si propagano per la terra universa,
E i fiori che portiamo sui cappelli sono la fioritura di
migliaia di anni.
 
Discepoli, io vi saluto! fatevi avanti!
 
Continuate a prendere appunti, continuate a interrogare.
 
Negli ultimi versi sublimi diCanto di me stesso riusciamo a identificare Whitman con Gesù:
 
Mi lascio in eredità alla terra, per rinascere dall’erba che
Amo,
Se ancora mi vuoi, cercami sotto la suola delle scarpe.
 
A malapena saprai chi io sia, che cosa significhi,
Ma tuttavia t’infonderò salute,
Purificherò, rafforzerò il tuo sangue.
 
Se subito non mi trovi non scoraggiarti,
Se non mi trovi in un posto cercami in un altro,
In qualche posto mi sono fermato e t’attendo.
 
Whitman è il più geniale tra gli scrittori americani, più del sopravvalutato Hemingway, più del suo rivale Faulkner, più della Dickinson. Se ci si vanta conoscitori della letteratura senza aver letto il Canto di me stesso, si è soltanto dei poveri ignoranti.
Io non ho scelto Whitman, è lui che ha scelto me, un giorno, caldo e triste, nella libreria in cui vado ormai da anni; era nell’angolo destro dello scaffale dedicato alla poesia, lo presi tra le mani, guardai l’uomo ritratto sulla copertina: sicuro, leggermente ammiccante, con un cappello sulla testa inclinata verso la sua sinistra, quasi come se volesse dire: “Ti va di venire con me?”Lo sfogliai e me lo portai a casa (ovviamente pagando); in auto cominciai a leggere e rimasi stupito e stupido. Lessi due poesie brevi A te e Tu lettore e capii che quel libro era per me e per me solo.
Denny B.
 

 

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