lunedì 28 settembre 2015

Canale Mussolini di Antonio Pennacchi


Mi faccia il favore di non interrompermi se no non la finiamo più e io di cose da fare ne ho una marea, va bene? Allora, nel 2010 la mia migliore amica mi regalò Canale Mussolini di Antonio Pennacchi. Come, scusi? Perché proprio questo libro? Ma cosa vuole che ne sappia, mi incuriosiva, aveva vinto lo Strega che non era ancora diventato promotore di libri fetenti, insomma, alla fine della fiera, me lo regalò. Ed è rimasto in un angolo della scrivania - non avevo ancora la mia stupenda libreria stipata di volumi - per cinque anni, finché il 3 settembre del 2015, dopo aver finito di leggere il deludentissimo La collina del vento di Carmine Abate, aprii il libro di tale Antonio Pennacchi e incominciai come fanno tutti i comuni mortali (e viventi) dall'incipit: "Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? Se non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui? Lì eravamo sempre stati e lì stavano tutti i nostri parenti. Conoscevamo ogni ruga del posto e ogni pensiero dei vicini. Ogni canale. Chi ce lo faceva fare a venire fino a qua?". Orco boia, che inizio. Non le sembra bellissimo? Lucido come una bala di cristallo e diretto come lo è solo uno che non ha tempo da perdere in bagordi orgiastici. Come dice? Cosa sono i bagordi orgiastici? Scusi, ma lei non sa chi è Guido Martina? O signore benedetto, vede cosa succede a non leggere Topolino? Comunque, lasciamo da parte la sua ignoranza, e continuiamo il discorso. Dicevo, l'incipit mi ha subito colpito. E andando avanti mica si è arenato, questo libro, no, è migliorato, come un buon vino. Se l'avessi lasciato sulla scrivania ancora un paio d'anni sarebbe stato ancora più buono e bevendomelo tutto mi sarei ubriacato per la prima volta. Come, scusi? Che parlo parlo ma non ho ancora manco detto la trama? Santi Numi, ma chi l'ha mandata lei? Belzebù? Varda, l'accontento subito. Nel 1932 nell'Italia fascista ci fu un vero e proprio esodo: dall'Altitalia (Ferrara, Friuli, Veneto) scesero migliaia di famiglie per andare a bonificare le terre paludose e malariche dell'Agro Pontino come coloni di una nuova terra promessa. Di queste famiglie lo scrittore ci racconta le gesta dei Peruzzi. Una famiglia così non l'ho mai letta, mi creda: una furia unita, leale e fumantina. Ci sono il nonno e la nonna Peruzzi, così chiamati dal narratore misterioso di cui scoprirà l'identità solo alla fine, che si vogliono un bene dell'anima, ma guai a fiatare con lei, ché è lei che stabilisce le regole della casa e che deve sempre avere l'ultima parola. Il povero nonno spesso se ne va a parlare al cavallo che almeno lui lo capisce e lo sta ad ascoltare. Pensi che muoiono l'uno a distanza di una ventina di giorni dall'altra e le ultime parole del nonno sono state "Ti si proprio bea". Come dice? Perché le ho svelato la loro morte? Ma se la prenda con lo scrittore che glielo mette nero su bianco dopo quattro pagine mica con me che devo ancora elencarle gli altri membri della famiglia. Dunque, ci sono i figli: Temistocle (riflessivo e pacato), Pericle (altro che testa calda, s'è bollente. Un punto di riferimento per tutti i Peruzzi), Iseo (seguirebbe il Pericle fino in capo al mondo), Adelchi (l'hanno visto solo una volta sporcarsi le mani in un campo. Quando gli sono presi i cinque minuti ha impugnato la pistola e s'è messo a puntarla contro i maledetti conti Zorzi Vila), e gli inseparabili Treves e Turati detto anche Can del Turati. Poi ci sono le figlie: la Bissolata detta anche Bissòla (velenosa come una serpe), la Modigliana (buona come il pane) e la Santapace. Ah, e poi c'è lei, l'Armida, la moglie del Pericle, che parla con le api. Sembra uscita direttamente da Macondo, glielo giuro. Comunque i Peruzzi vengono tutti in Agro Pontino dopo che la disgraziata Quota 90 imposta dal governo Mussolini nel 1926 permette ai conti Zorzi Vila di approfittarsi dei loro mezzadri che rimangono senza neanche l'ombra di un avere. Solo una cosa è rimasta loro bene bene attaccata alle ossa: la fame. Per questo scendono giù nel Lazio dopo che il Pericle e l'Iseo è andato dal Rossoni, pezzo grosso, il quale gli ha assegnato ben due poderi uno vicino all'altro. Il 516 e il 517.Come, scusi? Se è esistita veramente la famiglia Peruzzi? No, i nomi, così come il cognome, sono inventati, ma "non esiste però nessuna famiglia in Agro Pontino - anche questo è un fatto - a cui non siano capitate almeno alcune delle cose che qui capitano ai Peruzzi". Una cosa è meglio se gliela dico subito così evita di scandalizzarsi e di sgranarmi gli occhi che manco un lemure. I Peruzzi sono fascisti. Ecco, lo sapevo che faceva così. Ma secondo lei in quegli anni c'era qualcuno che poteva anche solo immaginare che il Mussolini c'avrebbe creduto alla storia di essere davvero un uomo speciale (faceva arrivare il sole quando in occasione della fondazione delle città pioveva che Dio la mandava, le giuro) che sarebbe stato pappa e ciccia con Baffetto? Glielo dico io: manco per niente. Ai Peruzzi, così come a migliaia di coloni arrivati in Agro Pontino, era solo l'uomo che, stando al governo, aveva dato loro la terra su e con cui vivere. Non so se mi spiego: aveva tolto la terra ai ricchi latifondisti e principi romani per darle ai poveri. Lei me lo riesce a trovare un altro regime totalitario che ha tolto ai ricchi per dare ai poveri? Avoja a cercare. Come dice, scusi? Se alla fine di tutta sta pappardella il libro è meritevole di essere letto? Ma finora io ho parlato a vanvera? Ma guarda te. Canale Mussolini è un bellissimo libro. Mandi al diavolo il primo che gli dice "Eh, ma è noioso". Noioso una ceppa. Se ci si annoia coi Peruzzi allora mi viene a dire che coi Malavoglia ci si fanno le grasse risate? Quelli ti fanno gli zebedei come i sassi di Aci Trezza. Ma poi il finale è così surreale e poetico che è la chiusa migliore che si potesse desiderare per un libro coinvolgente che non ha alcuna pretesa di essere il libro definitivo sul fascismo come ho letto in giro. E' solo il libro per cui Pennacchi è venuto al mondo. E io mi sento di ringraziarlo per la storia che mi ha narrato. Come dice, scusi? Chi sono io? Quello che adesso le dà una mazzata tra capo e collo, contento? Maledetto lei e tutti i Zorzi Vila.

lunedì 21 settembre 2015

Inside Out (2015)

Great Movie

★★★★

Riley è nata, come tutti gli esseri umani, con le cinque emozioni primarie, teorizzate dallo psicologo Ekman (Gioia, Tristezza, Rabbia, Disgusto, Paura - ci sarebbe anche Sorpresa, ma non vi è descritta) che hanno tutte un compito ben preciso: Gioia di rendere la sua giornata splendida e degna di essere ricordata; Rabbia fa sì che non riceva ingiustizie; Disgusto evita che ingerisca cibi orrendi (come i broccoli) e s'impegna affinché si vesta sempre alla moda; Paura vigila e controlla ogni pericolo al fine di mantenerla al sicuro; Tristezza, beh, Tristezza la fa piangere. All'età di dodici anni - cosa mai potrebbe accadere a quell'età? - avviene un brusco cambiamento nella vita di Riley: il trasferimento. I suoi genitori vendono la casa in cui hanno sempre vissuto e dal Minnesota si trasferiscono a San Francisco. Le emozioni, nella loro Cabina di Pilotaggio situata all'interno della mente della ragazzina, ce la metteranno tutta per rendere questo cambiamento tutto fuorché un trauma. Purtroppo però Tristezza un giorno sfiora un Ricordo Base e Gioia, nella fretta di rimetterlo al suo posto senza ulteriori danni, si ritrova, assieme a Tristezza, risucchiata da un tubo che porta direttamente nel labirinto della Memoria a Lungo Termine. Ce la faranno a tornare in tempo al Quartier Generale prima che le altre emozioni combinino un disastro emotivo? 

Inside Out è un concentrato di pura genialità. Questo film, assieme alle pellicole di Hayao Miyazaki, è la dimostrazione di ciò che s'intende quando si parla di animazione: esporre discorsi importanti e riflessioni profonde guardando il tutto attraverso le lenti colorate della fantasia. Da ogni scena, trovata o chicca sparsa qua e là ("Lascia stare, Jack. Questa è Nuvolopoli") traspare la gioia che il regista/sceneggiatore premio Oscar Pete Docter ha per la nobile arte di narrare attraverso il cinema. Fare meglio di così dopo il meraviglioso Up (chi lo dice che quando si è vecchi ci siano precluse le avventure?) e Wall(la potenza del cinema sta anche nel rendere umano un robot) credo sia dura anche per lui e per la Pixar dal punto di vista dell'inventiva e del soggetto trattato per la prima volta nonostante le emozioni qui descritte siano sempre state con noi fin dalla nascita. Ci voleva Docter perché le emozioni diventassero finalmente le protagoniste di un lungometraggio. 

Ogni emozione è caratterizzata sia nell'aspetto che nel colore che nel comportamento. Tristezza è di colore blu, ha gli occhiali e indossa un maglioncino a girocollo bianco. Viene tenuta in disparte da Gioia che non comprende bene la sua funzione all'interno del Quartier Generale se non quella di far piangere Riley e di appannare la sua felicità. E' pigra, sconsolata, e adora quel film in cui il cagnolino muore per non parlare del giorno in cui sotto la pioggia Riley si riempì gli stivali di acqua. Poi c'è Rabbia, facilmente irritabile, di colore rosso fuoco, che essendo abbigliato con camicia bianca, cravatta, e pantaloni marroni, è l'esemplificazione dell'impiegato stressato dal proprio odioso lavoro. Disgusto, di un verde acceso e dalle lunga ciglia è la Carla Gozzi delle emozioni: chioma, outfit, trucco perfetti. E' lei che ha il compito di tenere Riley lontana dagli orrendi broccoli e di farle fare bella figura a scuola andando a fare una cernita tra le compagne. Paura, invece, con maglia a quadretti e papillion rosso, sembra un contabile, una sorta di Silvano Rogi che vede pericoli ovunque (Paura: "Per il primo giorno di scuola ho preso in considerazione pericoli quali meteoriti, incendi, terremoti tranne essere chiamati dalla professoressa il primo giorno di scuola tanto figuratevi..."; Professoressa: "Abbiamo una nuova compagna qui con noi, Riley, alzati in piedi, parlaci un po' di te"; Paura: "Oh, ma dai, mi prendete in giro?"). Infine c'è Gioia, un vulcano di energia, il leader dell'emozioni, colei che ce la mette tutta per rendere la vita di Riley felice e priva di preoccupazioni. Il suo colore è il giallo eppure i suoi capelli sono blu come la Tristezza perché ad essa è inevitabilmente legata e solo alla fine questa consapevolezza brillerà come le stelle che punteggiano il cielo che Riley immagina di vedere la notte sdraiata sul letto. 

Inside Out è un viaggio all'interno della mente di una ragazzina di dodici anni, ma più in generale è una straordinaria avventura nella nostra mente descritta proprio come un mondo colorato, complesso, al cui interno vi sono altri mondi con i suoi "lavoratori" che svolgono mansioni ben delineate. Oltre alle emozioni primarie che vivono all'interno del Quartier Generale (ricorda molto l'ultimo esilarante episodio di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso di Woody Allen), vi sono le Isole (ovvero ciò che rende Riley veramente Riley) come quella della Famiglia, dell'Amicizia, dell'Hockey, della Scimmia e dell'Onestà alimentate dai gesti e dalle emozioni provate durante ogni giorno della sua vita sotto forma di sfere colorate a cui ogni colore corrisponde appunto un'emozione. E poi vi sono città sparse in tutta la mente: vi è Sogniwood (dove vengono girati in diretta i sogni in base al materiale ricevuto durante la giornata), Immagilandia (dove vi sono contenute le fantasie di Riley tra cui Nuvolopoli, la foresta di patatine fritte e il suo ragazzo ideale che darebbe la vita per lei) fino ad arrivare al Tunnel dei Pensieri Astratti e al vasto labirinto della Memoria a Lungo Termine dove piccoli operai scelgono quali ricordi rimuovere e gettare nella buia Discarica dei Ricordi Dimenticati, fino ad arrivare alla Porta del Subconscio, controllata da due guardie che disquisiscono sulla proprietà del loro cappello su cui c'è scritto "Mio", dove all'interno vi si tengono le paure più oscure di Riley

L'evoluzione di Tristezza all'interno del film è tanto geniale quanto sorprendente e inattesa. Come dice la mia fidanzata "Solo conoscendo veramente la tristezza, si può capire cosa sia la felicità. Siamo sempre abituati ad accantonare la tristezza e a non vederne mai gli aspetti positivi, quasi evitandola volontariamente, quando invece è proprio essa stessa a farci percepire lo scarto differenziale con la gioia. Se fossimo sempre felici non riusciremmo mai a percepire la vera felicità". E la presenza di Bing Bong, l'amico immaginario di Riley dimenticato nel corso degli anni per via del fatto che si cresce, si matura, ed è normale che alcune isole si sfaldino fino a scomparire nell'oblio, è fondamentale e lo fa assurgere al ruolo di eroe in una delle sequenze più intelligenti e commoventi mai viste in un film d'animazione. 

Guardando Inside Out si prova la Gioia dei bambini di fronte alla prima abbondante nevicata, Rabbia per non aver avuto prima un'idea simile, Paura di vedere la Pixar arenarsi dopo un capolavoro di tale portata e Tristezza per non averlo guardato abbracciati alla persona più importante della propria vita, ma sicuramente l'unica emozione che non si prova guardandolo è Disgusto. Inside Out è come Walt Whitman: contiene moltitudini. Una moltitudine di emozioni. La cosa più pura che il cinema può donarci. 

venerdì 18 settembre 2015

WES CRAVEN DAY: SCREAM (1996)


★★★

Periferia di Woodsboro, California, 1996. La diciassettenne Casey Becker (Drew Barrymore) riceve una telefonata di un uomo che non conosce. Questo le pone domande sui film horror e la avvisa che è più vicino a lei di quanto pensi. La ragazza, terrorizzata, lo avvisa che sta per arrivare il suo fidanzato, ma quest'ultimo si trova già nella veranda di casa sua imbavagliato e legato a una sedia. Inizia un breve gioco al telefono (domande mirate sui film horror) che non finisce per il meglio: Casey sbaglia risposta, il fidanzato muore, lei tenta di scappare, ma l'uomo, che indossa una maschera che ricorda l'urlo di Munch, la raggiunge e la colpisce ripetutamente con un coltello.  I coniugi Becker ritrovano poco dopo la loro figlia impiccata a un'altalena quasi priva di organi. La notte seguente il killer tenta di aggredire Sidney Prescott (Neve Campbell), ma lei riesce a sfuggirgli. Nell'immediato arriva il suo ragazzo, Billy Loomis (Skeet Ulrich), a cui cade dalla tasca un cellulare e Sidney sospetta subito di lui, così la polizia giunge a casa della ragazza e lo arresta. Ma la sera successiva Sidney riceve un'altra telefonata del killer. Chi si nasconde allora dietro la maschera di Ghostface?

Io che parlo di genere horror è sempre un po' come vedere una bandiera americana che prende fuoco in un film di Spielberg. Eppure in un anno ho recuperato alcuni capisaldi del genere tra cui Suspiria, Profondo Rosso, Shining, Rosemary's Baby - Nastro rosso a New York, Nightmare - Dal profondo della notte e tutta la saga di Scream di cui il primo e il quarto film sono sicuramente i più riusciti. E' davvero interessante esplorare una terra livida di sangue, colma di terrori soprannaturali e a volte fin troppo reali, omicidi violenti, mostri onirici, killer implacabili, inquietudine e paura. 

Scream di Wes Craven è un esilarante film horror che gioca in maniera sapiente con l'horror elencando le regole, smascherando le convenzioni e i trucchi e prendendo in giro i cliché e le situazioni più ricorrenti del genere. Una sorta di metacinema umoristico che non si prende sul serio. Il killer, Ghostface, nella prima telefonata chiede alla malcapitata quale sia il suo horror preferito e lei gli risponde il primo Nightmare perché i sequel sono solo robaccia. Craven crea un'occasione per bacchettare la piega non proprio stirata per il meglio che aveva preso il suo personaggio più famoso, Freddy Krueger, nei film successivi al celebre Dal profondo della notte). Inoltre cita spessissimo il capolavoro di John Carpenter, Halloween - La notte delle streghe, a partire dal cognome Loomis del ragazzo della protagonista, chiaro riferimento al dottor Loomis che aveva in cura Michael Myers, commenti all'interpretazione di Jamie Lee Curtis, definita la reginetta dell'urlo, fino alla scena geniale in cui Randy, sdraiato sul divano, guarda il film di Carpenter urlando alla protagonista "Attenta è dietro di te" mentre Ghostface è dietro di lui e il cameraman di Gale Weathers dentro al furgone gli urla in direzione dello schermo "Voltati! Voltati!". Un intreccio di metacinema davvero esaltante. 

Io adoro le eroine di Wes Craven. Sono tanto carine quanto toste e coraggiose. Come mi era successo con Nancy di Nightmare non volevo che succedesse nulla di male a Sidney (interpretata da Neve Campbell) e ogni qual volta il killer mascherato tentava di affondare la lama sobbalzavo sperando con tutto il cuore che lei riuscisse a sfuggirgli, a chiudersi dentro una stanza bloccando la porta con un armadio o ancora a colpirlo con un pugno deciso o un calcio negli stinchi. Ghostface gioca con le sue vittime mentre Wes Craven gioca con i nostri nervi solleticandoli, spremendoli, facendoci divertire con un horror in cui lame affondanti nella carne o brutali omicidi non mancano di certo. Oltre al sano e puro divertimento. Guardando i sequel però una domanda sorge spontanea: non è che Sidney sotto sotto porti sfiga?


Ecco gli altri blog, oltre al mio, che partecipano a Wes Craven Day:

Il Bollalmanacco - Il serpente e l'arcobaleno 
Non c'è paragone - La casa nera

Mari's Red Room - L'ultima casa a sinistra

Combinazione casuale - Nightmare - Dal profondo della notte

White Russian - Red Eye

Cinquecento Film Insieme - Scream 3 e 4

Pensieri Cannibali - Nightmare - Nuovo incubo


Il Zinefilo - Dovevi essere morta

Montecristo - L'ultima casa a sinistra

Director's Cult - La casa nera


lunedì 7 settembre 2015

Profondo Rosso (1975)


★★★★


Alla vigilia di Natale, il clima di apparente serenità dato da una nenia innocente e dall'albero decorato in un angolo ai cui piedi i regali aspettano di essere scartati, viene stravolto dall'ombra su un muro che  ne accoltella un'altra e con il conseguente coltello insanguinato cadere ai piedi di un bambino. 
Come prologo non è male. 
Cambio di scena: siamo in un congresso di parapsicologia tenuto in un teatro di Roma. Helga Ulmann (Macha Méril), celebre sensitiva, avverte, con tremende scosse emotive, la presenza di un assassino in platea che ha ucciso una volta e tornerà a uccidere di nuovo. Con una soggettiva adottiamo lo stesso sguardo del fantomatico assassino che si alza dalla sedia e raggiunge il bagno del teatro che è incredibilmente sporco, con i vetri talmente incrostati che non si riesce a vederne il volto. "Si sente bene?" domanda un uomo. Silenzio. La sensitiva, dopo aver esposto i suoi dubbi e le sue paure al prof. Giordani (Glauco Mari), torna a casa, ignara che l'assassino l'abbia seguita e che sia pronto a scatenare la sua inaudita violenza su di lei. 

Con Profondo Rosso - doveva chiamarsi La tigre dai denti a sciabola, grazie a Dio non fu così, ma dopo che ad Argento gli venne in mente il bellissimo titolo, i produttori hanno insisto per un po' su Rosso Profondo - il regista che mi ha stravolto ed entusiasmato (e terribilmente inquietato) con Suspiria si lascia alle spalle una volta per tutte la cosiddetta Trilogia degli Animali e si immerge nell'(in)esauribile fonte dell'horror dimostrando quello che era in grado di partorire la sua mente tanto geniale quanto perversa e che ora pare aver perduto per sempre (?) la distorta via dell'horror. Era il 1975. Ciò che il pubblico e i critici vedevano era innovazione, un gusto tutto particolare per gli omicidi, 

Ad Argento non interessa viaggiare sui binari del giallo - anche perché deraglierebbe senz'altro andando a rileggere, a mente fredda, la sceneggiatura - infatti straccia in gran parte il biglietto per quel treno gettandosi su quello dell'horror/thriller che lo porta a focalizzarsi di più sullo stravolgere lo spettatore con omicidi di una violenza inaudita, orchestrati con una mano sapiente e ispirata, e a mettere in tensione estrema i nervi con scene di una suspense quasi hitchcockiana tramite le soggettive e l'uso del montaggio. E pensare che il volto dell'assassino è ben visibile in uno specifico fotogramma nei primi quindici minuti di film. Neanche a dire che dopo i titoli di coda ho riavviato il film andando a vedere se, effettivamente, si vedeva, e la scoperta mi ha addossato brividi aggiuntivi non compresi nel prezzo. Bastava guardare in quella direzione e ci saremmo risparmiati la paura provata in seguito. 

In tutto questo il regista - le nostre coronarie ringraziano - inserisce delle scenette con David Hemmings e Daria Nicolodi le quali, pur essendo frivole e sciocche, interrompono il flusso costante di suspense e tensione che altrimenti avrebbe rischiato seriamente di mettere in allerta la salute di chi sta guardando la pellicola. Chissà se negli anni della sua uscita al cinema qualcuno in sala non si sia sentito male e abbia provato a uscire guardandosi le spalle per paura di ricevere una coltellata dal nulla. Credo che la scena del pupazzo - realizzata da Carlo Rambaldi - mi abbia tolto di netto dieci anni di vita. Sicuramente il mio omicidio preferito di Profondo Rosso, il vostro qual è, invece?

Se Suspiria mi ha inquietato, Profondo Rosso mi ha messo paura. Quell'occhio che appare all'improvviso squarciando il buio dell'armadio me lo sogno la notte e l'ascensore non lo prenderò per un paio d'anni. Come ha fatto Dario Argento - così come dicono i bene informati - a non raccapezzarsi più nel labirinto dei suoi orrori? Che abbia perso il filo di Arianna oppure l'età e il peso degli anni hanno fatto sentire prepotentemente la loro pesantezza?  L'ultimo punto non è più una giustificazione accettata da quando George Miller ha diretto quella bomba di Mad Max: Fury Road ergo ripjiate. 

mercoledì 2 settembre 2015

Follie di Brooklyn di Paul Auster


Lo stile è tutto. La storia può essere la più semplice di tutte, ma se è narrata con uno stile inconfondibile e ricco, allora è in grado di elevarsi sopra la marmaglia cartacea vigente. Un esempio lampante: La strada di Cormac McCarthy - doverosa premessa: piantatela, e ripeto, piantatela di definirlo il capolavoro dello scrittore perché non lo è manco se restasse l'unica sua opera sopravvissuta a un incendio - narra di un padre e di suo figlio che tentano di sopravvivere in un mondo post-apocalittico. Punto e basta. Il resto lo fa l'epicità del suo stile inconfondibile. Follie di Brooklyn di Paul Auster non è nient'altro che una soap opera. Ma - attenzione - ben scritta. Niente a che vedere con gli sceneggiatori di Beautiful e Centovetrine, per intenderci. Auster è uno che il suo mestiere lo svolge con tutto l'amore del mondo e anche con una certa dose di metaletteratura e giochi a specchio e a incastri stando alla trama di Trilogia di New York (stupenda la copertina della riedizione Einaudi), che ho letto una ventina di volte in tutto senza mai decidere di buttarmi oltre la dedica a inizio libro, e con questo libro credo abbia voluto prendersi una pausa scrivendo qualcosa di più fresco, leggero, che scorra via lasciando dietro di sé pochi detriti, e magari folle, direte voi, macché: folle sarebbe solo leggerlo una seconda volta. 

Nathan Glass, sessantenne ormai in pensione, è tornato nella sua cara e vecchia Brooklyn che non vedeva da più di cinquant'anni, per cercare "un posto tranquillo per morire" e nel frattempo scrivere Il libro della follia umana. Si aspetterebbe che la vita lo lasci in pace invece mai come arrivato a quest'età essa gli morderà le caviglie come un cane bisognoso di una passeggiata che costringe il padrone ad agguantare il guinzaglio e uscire fuori dalla porta di casa. Nel quartiere di Park Slope incontrerà nuovamente suo nipote Tom - brillante studente di lettere da cui ci si aspettava una carriera accademica gloriosa con uno strascico di pubblicazioni prestigiose, finito a fare prima il taxista e poi il commesso in una libreria del quartiere dopo aver deliberatamente abbandonato gli studi a causa di un arenamento sulla tesi su Melville - si prenderà una cotta per la bella e giovane Marina, cameriera del Cosmic Diner, e arriverà ad essere al corrente della movimentata (e poco dedita alla legalità) esistenza di Harry Brightman, il datore di lavoro di Tom - sicuramente il personaggio più frizzante del romanzo - fino a prendersi momentaneamente cura di Lucy, la figlia della sorella di Tom, Aurora, la quale sparisce con la stessa velocità con cui entra in scena. 

Tolta qualche succosa curiosità letteraria (lo sapevate che Kafka incontrò una bambina piangente in un parco e dopo aver scoperto che non trovava più la sua bambola impiegò tre settimane a scrivere le lettere, firmate dalla bambola, che poi puntualmente ogni giorno leggeva alla bambina per sopperire così al dolore a seguito della sua scomparsa?) e qualche bel paragrafo - "Noi due insieme eravamo come come un pomeriggio della seconda metà di ottobre, uno di quei luminosi giorni d'autunno sotto un cielo azzurro vivido, refoli frizzanti nell'aria e un milione di foglie ancora sui rami... marrone perlopiù, ma con ancora abbastanza ori e rossi e gialli per farti venir voglia di restare all'aperto il più a lungo possibile"di follie vere e proprie non ne ho trovate, così come personaggi in grado di stabilire un contatto con me; non sono andato oltre la semplice osservazione distaccata. Insomma, mi aspettavo le follie, mi sono trovato Brooklyn. Beh, meglio di niente.