lunedì 25 aprile 2016

Il Post (it): Vinyl (Stagione 1), Hap and Leonard (Stagione 1), Shining (S. King), Canne al vento (G. Deledda)

★★★½

Vinyl è rock, è blues, è la musica anni '70, è la disco music, è il punk. Prodotto da Mick Jagger, Martin Scorsese e Terence Winter, la serie Tv trasmessa da HBO è tra le conferme delizia-timpani dell'anno. L'episodio pilota di Vinyl è tra le cose più straordinarie che abbia girato Martin Scorsese: un'ora folle, esagitata, carismatica, brillante che si vorrebbe non finisse mai. Facciamo la conoscenza di Richie Finestra (il bravissimo Bobby Cannavale che gli intenditori ricorderanno per il ruolo di Gip Rosetti in Boardwalk Empire), fondatore e presidente dell'American Century Records, casa discografica sul punto di essere venduta. Richie, sposato con la bella Devon e con due figli, ha sempre avuto un orecchio d'oro con cui ha creato un impero dal nulla, ma la droga e gli eccessi l'hanno portato sull'orlo della bancarotta. Ma un incidente in cui scappa il morto e un concerto al quale assiste Richie dove i muri si crepano e il palazzo crolla lasciandolo illeso gli fanno ricordare che la vita è Rock e, mandati a quel paese i tedeschi a cui voleva inizialmente vendere, decide di risorgere dalla ceneri come una fenice portandosi appresso però le ire dei suoi soci. I primi quattro episodi sono eccellenti (il pilot è il migliore da circa cinque anni a questa parte). Stupendo è il il sesto (dove si omaggia David Bowie) e fantastico il settimo dal titolo The King and I. L'ultima scena del finale di stagione (Alibi) chiude con abilità il cerchio che ha inizio con il crollo del palazzo alla fine del primo episodio. Omaggi e riferimenti a True Detective, I Soprano, Il Padrino, Carlito's Way. Ma anche qualche difetto (si è distolto lo sguardo sui personaggi femminili e la componente mafiosa non è necessaria ai fini della serie). Speranze per la seconda stagione? Meno di zero. Terence Winter ha lasciato il posto di showrunner per divergenze creative (leggasi: licenziato), al suo posto due sconosciuti alle prime armi. God save the Rock e anche Vinyl. 


★★★

Tratto da Una stagione selvaggia di Joe R. Lansdale, Hap and Leonard è l'affermazione dell'amicizia autentica dai toni pulp, country/western, con qualche non invitata fuoriuscita nell'horror. Hap e Leonard sono amici da sempre. Raccolgono rose sotto il sole cocente del Texas e sopravvivono tra una scazzottata nel fienile e una birra in compagnia. Hap Collins (James Purefoy) ha trascorso alcuni anni in prigione per diserzione e ha un debole per le donne (soprattutto per una, Trudy, con la quale stava per sposarsi). Leonard Pine (Michael Kenneth Williams), invece, è un afroamericano gay dal carattere fumantino che ha combattuto in Vietnam. La loro virile serenità però viene interrotta dal ritorno di Trudy (Christina Hendriks, ovvero Joan di Mad Men), una femme fatale che convincerà Hap - nonostante le rimostranze di Leonard il quale detesta Trudy - a partecipare al recupero di un'auto affondata nel fiume al cui interno si troverebbe un tesoretto di un milione di dollari. Tra una banda di hippie con la pretesa di cambiare il mondo smerciando droga solo ed esclusivamente per soddisfare la questione liquidità, un perverso narcotrafficante dal grilletto facile  di nome Soldier (nota di merito a Jimmy Simpson) che si accompagna a una donna di nome Angel che di angelico non ha nulla (alta due metri, vesti di latex, tanga in bella vista, spietata orca assassina), Hap and Leonard si è rivelata come una delle sorprese dell'anno che i fan di Lansdale non possono lasciarsi scappare. Comunque, il penultimo episodio è di una violenza realistica a cui non ero più abituato. 



E' meglio il libro di Stephen King o il film di Stanley Kubrick? Black Jesus, che domanda scassaquallera. Almeno ora so rispondervi con assoluta certezza: è meglio il film. Non che il libro sia una ciofeca non commestibile, tutt'altro, ma di fronte alla paura pura che il capolavoro kubrickiano riesce a infondere nel cuore, nella mente e nelle vene di chi lo guarda allora le descrizioni di King sembrano arcobalenose (tié, petaloso) come le code dei My Little Pony. Allo scrittore del Maine, però, voglio dare atto della sua discreta capacità di descrivere una famiglia disfunzionale preda di frecciate velenose, gelosie ed episodi di violenza domestica. Shining, più che un romanzo su un hotel infestato, è un romanzo su tre persone che non riescono a stare sotto lo stesso tetto senza che l'anima di uno si avveleni. Danny è un bimbo adorabile, Jack uno scrittore fallito facilmente irascibile, Wendy una moglie apprensiva e soffocante, e quando i genitori scherzano tra di loro, si sorridono, e sembrano amarsi come una volta, ti viene difficile credere che da lì a poche pagine l'Overlook Hotel (inquietante invenzione) inizierà il processo che porterà Jack Torrance alla follia. Il finale? Thank you, Stanley. Solo questo. 


Canne al vento è uno dei classici della letteratura italiana che mi sono sempre ripromesso di leggere. Ci sono i romanzi di formazione, familiari, corali, il libro di Grazia Deledda è un romanzo di paese. Mentre leggi la sensazione provata è quella di esserci già stato in quei luoghi; forse nei sogni; o nel momento in cui le due palpebre sono ancora distese mentre l'occhio è già di per sé pronto a essere inghiottito dal buio. Siamo in un piccolo villaggio sulla costa tirrenica della Sardegna. In un umile poderetto di proprietà delle nobili donne Pintor vive Efix, devoto servo della famiglia da sempre, la cui esistenza è un pendolo che oscilla tra il poderetto che cura proprio come se fosse suo e la casa decadente in cui vivono le sue padrone, Ruth, Ester e Noemi, le quali conducono una vita accanto al lume della malinconia, come "i santi di legno nelle chiese" che "guardano, ma non vedono"Su Efix grava un pesante senso di colpa che non lo abbandona mai. Sogna con fervore la rinascita della nobile famiglia e questa speranza si riaccende quando Giacinto, il figlio di Lia Pintor (fuggita in America contro il volere dei genitori), arriva per la prima volta in paese. E porterà tutto tranne che la speranza. 
Una prosa suggestiva, lirica e profumata. Le descrizioni dei paesaggi sono delicate, attraversate dalla fantasia e pregne di simbolismo e superstizione. Tra i personaggi principali e secondari spiccano saggezza popolare, istinti primitivi, orgoglio nobiliare, devozione, amore. Tutti sono "proprio come delle canne al vento [...] Siamo canne, e la sorte è il vento"

martedì 19 aprile 2016

22.11.63 - Miniserie Tv

★★

Una miniserie Tv tratta da quel libro bellissimo che è 22.11.63 di Stephen King non poteva non crearmi una lieve salivazione, che è stata quasi prosciugata alla vista del nome dell'attore che avrebbe interpretato il professore di letteratura chiamato a viaggiare nel tempo al fine di salvare J. F. Kennedy: l'incapace James Franco. Se quest'ultimo non si fosse interessato al progetto in contemporanea con J. J. Abrams (produttore esecutivo della miniserie assieme a Franco e allo stesso King) con tutta probabilità si sarebbe scelto tutt'altro attore protagonista. Anzi, diciamola tutta: se Jonathan Demme (il primo a essersi mostrato interessato a una trasposizione cinematografica del romanzo) e Stephen King avessero trovato un punto d'incontro sulla stesura della sceneggiatura avremmo ottenuto un ottimo film invece di una miniserie qualitativamente nella norma. 

Jake Epping (James Francoè un infelice professore d'inglese nella cittadina di Lisbon Falls (Maine), appena stato lasciato dalla moglie ex alcolista. Dopo le lezioni tiene un corso di scrittura creativa dove incontra Harry Dunning, un bidello affetto da zoppia, che riversa in un tema assegnatogli l'episodio tragico di cui è stata vittima la sua famiglia nella notte di Halloween del 1958. Un giorno Al Templeton (Chris Cooper), gestore di un bar, affetto da un cancro ai polmoni, rivela a Jake un segreto incredibile: proprio nel retro del locale, dove c'è la dispensa, è presente un varco che se attraversato ti catapulta direttamente alle 11.58 del 9 settembre 1958. E Al, dopo aver convinto Jake a provare le sue parole onde evitare che lo prenda per matto, gli affida una missione impensabile: fermare Lee Harvey Oswald (Daniel Webber) prima che conficchi una pallottola nella testa del presidente J. F. Kennedy. Jake, dapprima riluttante, accetta e viaggia nel passato per cambiare il futuro. Ma presto Jake capirà che il passato è inflessibile e non vuole essere cambiato.  

A 22.11.63 manca il cuore. Non si riesce a instaurare un rapporto d'empatia con i personaggi coinvolti nella vicenda. E se in un prodotto seriale - anche solo una miniserie - manca il coinvolgimento e  il sentimento, qualunque esso sia, nei loro confronti allora tra fissare un frigorifero e guardare una serie non c'è alcuna differenza. Si è deciso inoltre di inserire il personaggio di Bill (finto fratello di Jake) poiché dal punto di vista televisivo la missione in solitaria di Jack (raccogliere informazioni su Lee Harvey Oswald così da scoprire chi era la mente che ha ordinato al dito di premere grilletto) poteva non funzionare.

Ora, comprendo le esigenze di sceneggiatura, il doversi "piegare al mezzo televisivo", tutto quello che si vuole, però poi non si passa sopra un intero episodio su Rick e Carl di The Walking Dead che si rifugiano in una casa e allora uno s'accascia sul divano mezzo morto e l'altro si abbuffa di budino scaduto. In quel caso non ci sto e invece di farmi venire l'ulcera vado a farmi un giro nel parco. 

Al di là dell'intreccio temporale affascinante, della missione che sotto sotto fa presagire un falso aroma di panegirico buonista pro-kennedy (fidatevi, non è così), 22.11.63 convoglia la sua attenzione unicamente sulla storia d'amore tra Jake e Sadie (un'eterea Sarah Gadon) finendo per far passare in secondo piano il momento rivelatore dell'intera vicenda (quando Jake torna nel futuro). Piacevolmente sentimentali i minuti finali, ma non basta. 

giovedì 14 aprile 2016

Shameless - Stagione 6

★★★½

Sesto anno gallagheriano e allo stesso tempo primo anno in cui il sottoscritto assiste alle (dis)avventure della famiglia più amata della Tv in contemporanea con gli USA. Dopo aver fatto la conoscenza dei Gallagher nella prima stagione, esser rimasto deluso guardando la seconda, provato divertimento guardando la fiera dell'illegalità nella terza, rimasto in l'estasi per la quarta insuperabile stagione ed essermi goduto il viaggetto della quinta sui binari della piacevole godibilità, questa sesta stagione, giunta ahimé al termine la scorsa settimana, ha saputo nuovamente emozionare, divertire e coinvolgere, confermando il pedigree di cui sono dotati i Gallagher.

La svolta di Carl - il Gallagher dell'anno - da delinquente ad aspirante poliziotto (e il pensiero di Carl in veste di agente di polizia fa molta più paura rispetto ai panni di Pablo Escobar in miniatura); la nuova relazione di Ian dopo l'importante storia con Mickey (tutti speriamo ritorni nella settima stagione); la brutta piega che ha preso la vita di Lip (da piccolo genio ad alcolista sregolato); la nascita della figlia di una teen Debbie piuttosto irritante; a Kevin e Veronica (a cui si aggiunge la simpaticissima Svetlana) è affidata la parte puramente goliardica e fanno come al solito centro; dopo una lista di uomini sbagliati vi è il consolidamento del rapporto tra Fiona e Sean e il perno della famiglia Gallagher sembra(va) aver trovato finalmente l'uomo giusto; e poi c'è Frank, sempre il solito stronzo sempre a un passo dalla redenzione. 

Uno dei momenti da brividi di questa sesta stagione è sicuramente la perdita della casa è un colpo durissimo non solo per i Gallagher, ma anche per noi tutti amanti di Shameless dove a ogni nuova stagione siamo stati accolti oltre la soglia di quella porta che ha visto entrare e uscire moltissime persone. Quella porta che conduce alla base dei Gallagher. Quante ne ha vissute quella casa? Quanta storia c'è dentro quelle mura? Ne conosciamo ogni crepa, incrinatura, stucco, scheggia e scalini pericolanti. La casa di Fiona, Lip, Ian, Debbie, Carl e Liam è anche la nostra casa. Cosa sarebbe Downton Abbey senza la tenuta dei conti di Grantham? Sicuramente più povera. Ciò vale anche per Shameless: perché non sono solo i personaggi a tenere viva una serie Tv, ma soprattutto i luoghi dove le loro vicende prendono vita. 

Incominci a guardare il nono episodio di questa sesta annata di Shameless con una mente nostalgica, e si finisce inevitabilmente a fare dei paragoni con le precedenti stagioni, specialmente con l'intensità della perfetta quarta stagione. Ecco, mancano dei momenti davvero intensi e sembra che agli autori manchi l'ispirazione. Certo, la perdita della casa è un bel/brutto momento, ma l'annosa situazione, risolvendosi nel giro di una puntata, non la si è sfruttata a dovere. Il finale è amarissimo e sconsolante e quando l'amico di Carl compie un determinato sanguinoso gesto la forza della serie si fa sentire alla base dello stomaco. 

Poi però assisti - sempre nell'episodio nove - al breve ritorno di Mandy che nel frattempo si scopre essere diventata una escort; a Lip che rischia seriamente di imboccare la strada alcolica dell'odiato "padre" Frank; alla prima volta di Carl; al primo orgasmo di Debbie; e soprattutto alla proposta di matrimonio di Sean a Fiona. E niente, finisci per ricordarti perché ami Shameless, perché ami i Gallagher. Perché a ogni loro prima volta sorridi e alzi il calice per brindare in loro onore. 

lunedì 4 aprile 2016

House of Cards - Stagione 4

★★★

Uno dei miei personaggi seriali preferiti è Frank Underwood. Freddo manipolatore, impagabile opportunista, micidiale stratega, omicida impenitente, affascinante affabulatore. No, non è la descrizione di un narcotrafficante o di un boss degli anni '30. Ma del Presidente degli Stati Uniti d'America. E l'attore che lo interpreta è colui che indico come il Figlio nella mia speciale (e indiscutibile) trinità d'attori viventi: Kevin Spacey. Fin dalla prima puntata di House of Cards - tratta dalla trilogia letteraria di Michael Dobbs, sviluppata per la televisione da Beau Willimon e prodotta, tra gli altri, da David Fincher - si è affermata come una delle serie Tv più intriganti e interessanti, in grado di rendere la politica (che barba e che noia) addirittura sexy. 

Frank Underwood, da quando è subentrato a Walker, non ha avuto una presidenza facile e come se non bastassero le pressioni dei russi, le beghe di partito e un Doug (suo braccio destro) in riabilitazione al termine di un negoziato finito male, che ha non poco minato la credibilità politica di sua moglie Claire, il suo speciale rapporto con lei sembra destinato a finire. Claire è satura del ruolo di First Lady e mira in alto: la vicepresidenza. Frank sa che sarebbe un suicidio politico se la nominasse senza una buona ragione e in questo caso il destino gli viene in soccorso sotto forma di una pallottola che fa centro nella sua carne. 

Come si è capito fin dalla prima puntata, dove un Kevin Spacey in bretelle e camicia bianca pone fine ai guaiti di un cane investito da un auto, House of Cards è una serie Tv disumana. Le poche volte in cui il sentimento danza sui volti dei personaggi come una flebile fiammella noi proviamo quasi della repulsione; perché il sentimento stona maledettamente in quella fotografia dai toni glaciali e quando compare il sesso, beh, è soltanto un altro modo per esprimere il potere dell'uno sull'altro. 

E' vero, Frank non sputa su un crocifisso, non piscia sulla tomba del padre, non vorrebbe buttare giù dalla tromba delle scale il presidente russo Petrov, ma quando rompe la quarta parete in questa stagione non lo fa mai a sproposito e si fa perdonare per non averlo fatto prima, e noi lì, incantati da questo pifferaio magico con le mani lordate di sangue. E manca poco che si ritrovi a banchettare all'inferno come un Kennedy qualunque. Inoltre scene come quella nello studio ovale con il Segretario di Stato Cathy Durant rimarranno nella storia dello show per tensione e atmosfera. 

Poi, finalmente, gli autori, accortisi che la Dunbar era una concorrente troppo debole per un figlio di buona donna come Underwood, hanno inserito il governatore Conway, candidato repubblicano alle elezioni presidenziali, dall'immagine pubblica immacolata i cui reali appetiti vanno a braccetto con quelli del suo tenace e scaltro avversario (nonché presidente). Per questo e per altri motivi (su tutti la regia elegante e decisa di Robin Wright) questa quarta stagione di House of Cards supera in qualità la terza, si può accostare senza problemi alle prime due imperdibili stagioni, e non fa che accrescere la salivazione in attesa di una quinta presumibilmente debordante di caos, violenza e terrore.