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Truman Capote: un omosessuale, un alcolizzato, un drogato, uno che non aveva peli sulla lingua e che aveva il coraggio di dire di Dostoevskij che "il suo stile fa schifo", di Jack Kerouac che era un buffone o di William Burroughs che era privo di talento. Arrivava a dire che che Camus era uno scrittore di second'ordine e che Hemingway era "un uomo mediocre che non ha mai scritto nessuna opera che sia la migliore nel suo genere" (non aveva tutti i torti, scusate). Se fosse ancora vivo bacchetterebbe per benino gli "scrittori" come Baricco, Volo, o la più improvvisata Barbara D'Urso o il più becero Bruno Vespa, che hanno l'altezza letteraria di un puffo e continuerebbe a essere un'icona di stile e a organizzare feste memorabili come il suo ballo "in bianco e nero" del 1960.
Però, oltre a tutto ciò, Truman Capote era soprattutto un genio. Sì, un genio che poteva evitare di dare alle stampe Colazione da Tiffany. Ma solo un genio riesce a fondare un nuovo genere letterario, la non fiction-novel, o romanzo-verità. Ma in questo caso non sto parlando di A sangue freddo, il suo libro più famoso, ma de L'arpa d'erba.
Il romanzo narra di un giovane ragazzo che viene affidato a due zitelle, Verena e Dolly Talbo, che vivono in un piccolo paese del Sud degli Stati Uniti. Un giorno il protagonista, Dolly e una loro amica di colore scappano di casa e decidono di andare a vivere in una piccola casa costruita sopra un albero. L'arpa d'erba è il vento che racconta delle storia, la storia di tutta la gente, e quando non ci saremo più, racconterà anche la nostra.
E' un romanzo delicato, sussurrato, profondo, scritto con una penna leggera, agile, che porta il lettore nell'ambiente capotiano del romanzo stesso, fatta di erba, i profumi della campagna, gli alberi, ma anche di abbandono, perdita della propria dimensione ideale in cui si vorrebbe vivere in eterno e delle persone a cui vogliamo bene.
Ve lo consiglio caldamente.
Denny B.
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