martedì 6 settembre 2016

Velluto Blu (1986)

Recensione a cura della mia morosa Federica

★★★½
Risultati immagini per velluto blu poster

Lumberton. Un nome anonimo per una cittadina di provincia tanto luminosa, quanto così apparentemente tranquilla da sembrare un locus amoenus puro e impeccabile.       
Su questo sfondo si muove silenziosamente la vicenda di Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan), uno studente costretto a lasciare il college per tornare a casa a causa della malattia paterna. È proprio al rientro dall'ultima visita al padre in ospedale che Jeffrey fa uno strano ritrovamento sull'erba: un orecchio umano, un reperto raccapricciante che al suo interno (mai espressione potrà essere più corretta) nasconde la vera faccia della cittadina americana: un sottosuolo da scoprire che pullula di insetti che si ingozzano di violenza, perversione e corruzione. Il canale Tv Iris, in occasione del trentennale della pellicola, ha deciso di regalare ai cinefili insonni della domenica un dono con carta da regalo di velluto e fiocco blu. Questa è stata infatti la meravigliosa possibilità che ho colto per recuperare questo famosissimo lungometraggio di David Lynch che segue cronologicamente, nella mia personale esperienza lynchiana, I Segreti di Twin Peaks, Fuoco Cammina con me, Mulholland Drive e Una Storia Vera. Proprio questi pregressi, successivi però al lancio sul grande schermo di Velluto Blu, permettono di vedere subito una falla precisa in quest’opera magistrale: l’immaturità di un regista già capace di giocare coi significati e gli oggetti messi in scena, ma non ancora pronto a sperimentare modalità eclettiche per farlo.

Velluto Blu è, nella sua linearità e chiarezza, “narrazione” nel senso più letterale del termine. Un modus narrandi che con la crescita Lynch (fortunatamente) perde a favore di una maggiore competenza visionaria di cui comunque si vedono già elementi, come piccoli indizi del genio, come antipasti preparatori di ciò che sconvolgerà le menti. In Velluto Blu Lynch fa quasi della linearità un mantra. Una sfida allo spettatore stesso, che rimane incollato per le due ore successive pur avendo praticamente già visto tutto nei primi minuti. Bastano infatti pochi fotogrammi e tutto è già svelato: la provincia così luminosa, così colorata, con delle tinte talmente saturate da far sembrare le strade di Lumberton un set pubblicitario, cela del marcio. Il buio è nascosto forzatamente in una bellissima sinestesia dalla canzone di Bobby Vinton che ispira il titolo stesso del film. Lynch carica il volume del brano, quasi a voler creare un ossimoro con ciò che vediamo di più infinitesimale e contrastante in modo sinestetico: gli insetti.  

In questo gioco di figure retoriche dei sensi della vista e dell’udito, ciò che è bellissimo nel macroscopico a un occhio poco attento diventa subito spaventoso nel microscopico, nelle profondità. Questa divisione tra torbido e lucente è visibile anche dalle scelte cromatiche: oltre alle tinte iniziali, un perfetto esempio è il percorso alla luce del sole delle scale per arrivare all'interno sette dove abita Dorothy (Isabella Rossellini). In questo contrasto anche di interni e di esterni lentamente la luminosità si perde, a favore di ambienti sempre più contrastati e toni scuri. Coloristicamente c’è però un'eccezione: “l’uomo giallo”. Il colore dei suoi abiti, perennemente uguale, sembra stridente e altamente comunicativo, tanto da prestarsi a una molteplicità di interpretazioni. Considerando il ruolo del personaggio, corrotto pur essendo al servizio della comunità, la scelta cromatica nasconde da un lato la volontà di sottolineare, tramite il tono usato per eccellenza come evidenziatore, la presenza di un’essenza sudicia anche e soprattutto in ciò che appare e dovrebbe essere inattaccabile. Dall'altro è un campanello precisamente contestualizzato nella dinamica narrativa lineare adottata: ancora una volta Lynch ci sbatte davanti agli occhi la contraddizione più esperita nelle nostre vite: spesso il buio si nasconde proprio sotto i nostri occhi, anche nelle modalità più semplici. Peccato non essere capaci di coglierlo.           

Gli accenni sinestetici che aprono la pellicola tornano ancora più precisi nell’immagine utilizzata per mettere in scena l’intenzione narrativa: l’orecchio. Velluto Blu è un’opera visiva che si centra e si snoda su un organo uditivo. In varie interviste Lynch ha spiegato che la scelta dell’orecchio ha per certi versi una motivazione, ma è impossibile non apprezzare anche per questa duplicità sensoriale la sublime scelta delle due inquadrature dell'orecchio aprono e chiudono la vicenda. Esse sono contrapposte: in quella iniziale si entra nell'orecchio, quasi volendo analizzare il più piccolo dettaglio del tessuto epiteliale (passaggio tenebroso al microcosmo della provincia), mentre nella conclusiva ci si apre a un mondo, di onirica premonizione, di pettirossi che mangiano gli insetti.            
Il taglio dell’orecchio (che quasi proviamo sulla nostra pelle quando, dopo essere stato annunciato nell'ufficio del detective, è ripreso acusticamente da un taglio del nastro della polizia), in una dimensione dove il sottofondo musicale, nelle note omonime e non solo, è preponderante e telo per nascondere ciò che nessuno deve vedere e sapere, è quasi uno squarcio netto di silenzio (silenziosa è stata infatti definita inizialmente la vicenda di Jeffrey) dopo tanto assordante rumore.          

La costruzione dei personaggi offre sicuramente altrettanta ricchezza. Lynch concentra tutto il suo genio in fieri in Frank (Dennis Hopper), una figura decisamente rumorosa (è lui stesso a chiedere a Ben di cantare In Dreams e a usare la versione di Blue Velvet dello Slow Club quasi come tranquillante mentre stringe un brandello di velluto blu della vestaglia di Dorothy) nel tentativo di aprire una crepa di silenzio. Egli rappresenta un classico caso di personalità multipla (facilitato dal gas) su base traumatica dovuta all'abuso in tenera età da parte di entrambi i genitori, che lo costringe ad assumere e a far assumere i ruoli del bambino, della madre o del padre nella dimensione sessuale. La stessa situazione della sessualità morbosa, malsana e brutale, in cui si cala anche la sua vittima traendone piacere, forse per identificazione con l'aggressore come mi suggerisce la mia deformazione professionale, è frutto della violenza subita in età infantile. Anche in questo caso Lynch pecca di self-disclosure delle sue intenzioni narrative: nella sovrapposizione finale tra Frank e l’uomo con la valigia fotografato nell'incontro con l’uomo in giallo è come se si volesse inoculare nello spettatore la riflessione sul tema del doppio che, amplificato e contestualizzato, potrebbe non solo richiamare la duplicità della personalità ma anche quella tra microscopico e macroscopico a cui precedentemente accennato.   

Sandy, pur essendo un personaggio non totalmente inglobato nella vicenda, sembra quasi voler rappresentare l'estremo opposto di Frank, anche coloristicamente parlando. Spesso vestita con toni rosati, come se fosse una donna angelica che poco si mescola al marcio della città perché non ha per nulla queste caratteristiche (“Sei una brava ragazza” le dice proprio Jeffrey) e che, in un parallelismo con la Beatrice dantesca, porta direttamente (è infatti lei a fungere da catalizzatore per la curiosità di Jeffrey) a un percorso di conoscenza e di esperienza del personaggio nei bassifondi infernali per poi liberarlo e fargli raggiungere una "candida rosa" di pettirossi.       

In questo Lynch già molto pieno di contenuto, l’eccessiva e deludente comprensibilità narrativa si salva in corner grazie a piccole briciole che solleticano il flusso mentale preparatorio alle più complesse opere lynchiane. Chi ha visto Mulholland Drive non può non aver notato già in questo caso l'attenzione ai cartelli stradali e ai luoghi in cui avvengono alcune vicende o un certo parallelismo tra la condizione che prelude al secondo incontro tra Dorothy e Jeffrey e al primo tra Rita e Betty. I personaggi per entrare in contatto devono nascondersi l'uno all'altro nella casa di uno dei due, che in entrambi i casi è a suo modo un artista. Le stesse scene dello Slow Club rimandano per assonanza al Club Silencio: manca la tensione poetica che arriverà solo nel 2001, ma il dettaglio allegorico delle tende rosse è già un bel segnale della produzione futura. Anche il richiamo a Twin Peaks risuona preponderante in molte scelte. Velluto Blu si articola in una profonda ricerca degli oscuri segreti della provincia all'apparenza perfetta che daranno poi il nome a quelli di un’altra cittadina in cui l’agente a capo delle indagini sarà proprio Kyle MacLachlan.          

Lo stesso Jeffrey in qualche modo si riallaccia a Laura Palmer: al risveglio dopo la tremenda notte che non è stata affatto “un giro del piacere”, è sicuramente vivo, non avvolto nella plastica e il colore della sua pelle non parla di morte. Egli però si ritrova comunque in un luogo d’acqua, più precisamente un lago, la sua pelle ha i colori della tumefazione e porta con sé della sabbiolina simile a quella sulla fronte di Laura.   
Frank sembra poi essere una costruzione prodromica di Bob: egli non rappresenta il male, ma una modalità in cui tale astrazione (rappresentata concretamente in un’entità nella famosa serie) può esprimersi.   
Ciò che è più notevole è però una dicotomia sottile che torna come un’assonanza in entrambi i casi: il peggior nemico dei giovani (e quindi di ciascuno di noi che in potenza, aristotelicamente parlando, sarà un adulto) sembra essere la noia, il migliore amico il mistero. La noia e, per certi versi, l’equilibrio permettono di insinuarsi nelle vicende più disparate, di aprire portoni proibiti che fanno lasciare sulla soglia la muta dell’innocenza per comprendere la vita di una donna dell'interno sette o per finire nel giro del One Eyed Jacks. Insito in noi perciò non sembra esserci nient’altro che un desiderio di palingenesi continua, come ci sottolineano gli ultimi fotogrammi completamente sovrapponibili a quelli iniziali: se solo i pettirossi fossero sempre vivi per mangiare insetti, saremmo veramente capaci di esistere? E potrebbe davvero esistere un mondo talmente utopico o è solo l’ennesima facciata di sicurezza di cui necessitiamo?           

Nel finale, unica perla di non linearità di quest’opera, facilmente confondibile con i rassicuranti toni della speranza, David Lynch ci ricorda che, pur illudendoci del contrario, siamo condannati a colori luminosi e poco contrastati di cui abbiamo profondamente bisogno e a un macrocosmo che deve continuare a bendarci gli occhi per mezzo di un assordante Blue Velvet di sottofondo.

1 commento:

  1. Visto eoni fa e mai apprezzato del tutto, dovrei rivederlo. Però interessante la tua analisi.

    RispondiElimina